Politica

“Fare” inclusione e non solo sacrifici

di Franco Bomprezzi

Torna in auge il verbo “fare” come sinonimo di concretezza, di programmi operosi per la ripresa del Paese, di collaborazione fra pezzi diversi della società, con l’obiettivo comune di uscire dalla crisi. Eppure mi colpisce come, fra i tanti proclami più o meno bipartisan di queste settimane, manchi quasi completamente (a meno che non mi sia sfuggito qualcosa) un impegno preciso a considerare, all’interno del “fare”, anche le politiche attive di inclusione delle persone con disabilità.

Il dibattito è tutto attorno ai sacrifici, alla partecipazione alla spesa, alla riduzione delle agevolazioni, alla definizione dell’Isee in modo tale da garantire maggiore equità (il che è sacrosanto) ma intanto soprattutto maggiori entrate nelle casse dello Stato. C’è come uno iato sempre maggiore tra la consapevolezza che il welfare deve prendersi carico delle persone più in difficoltà e delle loro famiglie, specie quando si è in situazione di non autosufficienza, e l’impegno, sempre più evanescente, per mantenere vive le politiche di inclusione sociale e lavorativa per tutti coloro che possono, o potrebbero essere, produttivi al pari degli altri.

Le cronache ci raccontano di licenziamenti e di cassa integrazione di massa, e pochi si accorgono che all’interno di questi numeri impressionanti ci sono adesso anche i lavoratori e le lavoratrici disabili, o che hanno in famiglia una o più persone da accudire in modo permanente e costoso. C’è quasi la non dichiarata convinzione che in qualche modo questa espulsione silenziosa dal mondo del lavoro sia un danno collaterale inevitabile, dal momento che la crisi colpisce anche e prima di tutto chi è “abile”. La solidarietà si sfarina, e le storie diventano drammi individuali, spesso nascosti per pudore o per la sensazione di una totale impotenza di fronte ad eventi epocali e collettivi così gravi.

Nel piano del lavoro invocato in queste ore dal movimento sindacale e anche dagli imprenditori è doloroso notare che non si fa cenno, quasi mai, al lavoro negato in massa alle persone con disabilità. E si dimentica che ogni persona capace di produrre reddito è una risorsa per una serie di consumi ben precisi: dalla mobilità (acquisto e allestimento di autovetture adattate, uso dei trasporti pubblici..) all’abbigliamento (non solo la tuta da tenere in casa perché tanto non c’è motivo di uscire…), dall’acquisto di tecnologie e di strumenti di comunicazione (smartphone e tablet si stanno rivelando potenti strumenti di inclusione anche delle disabilità sensoriali, con le opportune applicazioni) al superamento di barriere architettoniche nelle abitazioni (per uscire di casa ogni giorno in modo autonomo) e nei luoghi di lavoro (utilizzando le agevolazioni fiscali e i contributi che pure ci sono).

Se non si riesce ad avere questo sguardo inclusivo sulla disabilità, che non è un universo indifferenziato, e che non comprende solo coloro (che pure sono numerosi) che non sono in grado in alcun modo di contribuire allo sviluppo economico del Paese, si rischia oltretutto di aumentare in modo esponenziale la quota da destinare alla pura assistenza, dilatando la spesa pubblica, e impedendo in tal modo di intervenire in modo efficace e adeguato nei casi di handicap grave e di totale non autosufficienza.

Occorre “fare squadra”, e il discorso vale ovviamente anche per il mondo variegato delle associazioni di tutela delle persone con disabilità, che mai come adesso devono riuscire a superare diffidenze e storie diverse, incontrandosi sul terreno comune dei diritti e dei bisogni reali di ciascuno. E occorre che il Governo, qui e adesso, se ne accorga e batta un colpo.

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