Mondo

Far West Kosovo

A Pristina alle dieci di sera è una regola restare imbottigliati.I ragazzi sono in fila per entrare nei locali.A Peja, per una faida tra albanesi, invece brucia l’ultimo ristorante rimasto aperto

di Riccardo Bonacina

Gezim Mehemedi ha trent?anni e si agita come un bambino di dodici. Nel suo volto e persino nel suo fisico sbilenco, nella sua voglia di raccontare tutto a tutti si riassume ciò che si vive a Pristina in questa fine luglio 1999. Non solo perché è lui ad accoglierci, ma perché Gezim è davvero magro e felice come tutti i kossovari albanesi. Tutti: i 730 mila che sono rientrati dai Paesi confinanti e da ogni angolo del mondo come un fiume in piena, e gli oltre 800 mila che hanno resistito chiusi nelle loro case o nei boschi in questo terribile ?99. Gezim vuole raccontare a tutti la felicità degli albanesi e al nostro arrivo in città ci dice: «Per la prima volta l?euforia albanese è giustificata. Oggi il futuro è davvero nostro». Lavora alla sede Cesvi di Pristina, una delle quattro ong italiane impegnate nel programma di aiuti di Echo, dal settembre 1998 è la guida e l?interprete più affidabile e attivo. Dal 24 marzo, giorno dell?inizio dei bombardamenti Nato e di conseguenza anche della fase più cruenta della pulizia etnica da parte delle forze militari e di polizia serbe, la sua vicenda si intreccia a quella di decine e decine di migliaia kosovari albanesi. Gezim mette in salvo le poche cose dell?ufficio Cesvi e poi si rintana in casa per settimane e settimane, all?inizio di maggio durante uno dei rastrellamenti dei miliziani serbi viene scovato e costretto all?esodo forzato. Gli amici cooperanti italiani non avranno sue notizie per giorni e giorni sino a che Ermes, responsabile del Cesvi nei Balcani, in missione nel campo di Blace, in Macedonia, se lo trova davanti, stanchissimo e ancor più magro.
Con Gezim, nell?ufficio di Pristina lavora Ajim Denohlli, 29 anni, lui è riuscito a restare a Pristina sino al giorno dell?accordo, il 9 giugno. Settantotto giorni chiuso in casa, nel terrore e senza cibo. Rondinella è bellissima e di anni ne ha solo 20, abitava a Pec (Peja per gli albanesi), lei è fuggita a piedi insieme al fratellino di 11 anni verso il Montenegro in un giorno ancora freddo di aprile. Settanta chilometri a piedi attraverso le montagne. Oggi fa l?interprete per i cooperanti italiani. Pristina è una città con 120 mila abitanti e ciascuno vi racconta le proprie fughe, la vita nascosta, i veleni etnici in cui è cresciuto e i suoi lutti. Gezim, Ajim, Rondinella, così come Gjior, Mustafà, Edita. Qualcuno ha perso il padre, qualcuno il fratello, altri pensano al nonno rimasto in Macedonia o in Albania. Ma un conto sono i racconti tristi e l?altro è la realtà di questa fine luglio a Pristina e nel Kosovo: l?euforia più forte dei ricordi e delle case distrutte.

I giorni dell?euforia
A Pristina alle dieci di sera è cosa normale rimanere imbottigliati in un ingorgo fatto di macchine e persone. I locali sono stracolmi, i ragazzi fanno la fila. I kossovari albanesi sono un intero popolo di ragazzi: il 52% della popolazione ha meno di 19 anni e l?età media è di 24 anni (il più giovane popolo d?Europa). Sono tutti in strada alle dieci di sera, i ragazzi con i capi Nike e le Adidas e le ragazze con il loro trucco pesante e le loro minigonne, stanno al bar e bevono birra (con l?etichetta albanese, finalmente!) e sbocciano gli amori. Persino le giovani mamme con il passeggino e i loro biondi bimbi escono a tarda sera. La città è loro, ed è la prima volta da che sono nati. La crisi del Kosovo ha la loro stessa età, dura dal 1981, e loro non hanno conosciuto nient?altro che repressioni e discriminazioni politiche ed umane. Eppure vedevano ogni sera, rintanati in casa (altro che lo struscio in centro) i ragazzi di Roma o di New York attraverso le loro parabole satellitari, vedevano i frivoli servizi della Cancellieri sull?alta moda e Giochi senza frontiere e i serial United States: Pristina è la città d?Europa con la più alta percentuale di antenne paraboliche rispetto agli abitanti. Provate a spiegargli che la loro è un euforia malata, che è una nuova sopraffazione, che a pagare la loro felicità di luglio sono altri giovani innocenti, magari rom o serbi. Non chiedete poi loro quale futuro si immaginano, quale Paese, che rappresentanze politiche, con che alleanze internazionali. A loro, oggi, basta l?euforia di una città riconquistata, sentita per la prima volta come tua. Se tutto questo ha già un prezzo non chiedete ragione a loro. Vi opporranno un classico ?Chi se ne frega?, oppure, un più irrealistico, ?La guerra questa volta l?abbiamo vinta noi?. Non crediate che sia un genere di euforia solo cittadina, è così anche nelle città più piccole, persino in molti villaggi, quelli albanesi s?intende.
A Maljisevo, paesotto fantasma sino a un mese fa, si fa oggi una coda di tre chilometri per entrare ed una altrettanto faticosa per uscire: c?è un mercato a cielo aperto, ogni giorno. A Maljisevo arrivano i trattori, quelli con cui hanno aperto i tg del mondo occidentale per due mesi, lunghe file di trattori carichi di tutto, verdura (peperoni verdi, pomodori, cetrioli), frutta, sacchi di tè, infissi, travetti, vetri per le finestre, mattoni, e sopra tutto i soliti bellissimi bambini. I kossovari trafficano e lavorano, stanno rappezzando le case con quello che trovano ai mercati, riforniti dai Tir in arrivo dalla Macedonia e dai traffici illegali con l?Albania. La ricostruzione è già in corso e non aspettano gli aiuti internazionali, a loro basta, per ora, la capacità commerciale (a Pristina gli albanesi affittano appartamenti al personale internazionale a 2,5 milioni al mese) e quel che resta dei loro risparmi: seppur perseguitata era la loro la comunità più ricca, 300 dollari al mese di reddito medio grazie ai commerci e ai proventi dei 400 mila emigrati, contro i 12 dollari di reddito medio dei serbi inchiodati nei posti pubblici di una Repubblica fiaccata da 9 anni di guerre perse e dalle sanzioni internazionali.

Kosovo: l?altopiano che brucia
Per chi arriva da fuori il Kosovo è anche un insopportabile e insopprimibile odore di bruciato che diventa fortissimo nelle vicinanze dei nuclei abitati. Il grande altopiano (formato da due rigogliosissime valli, quella del Kosovo e quella, più a occidente, della Metohjia) brucia da almeno due anni e continua a bruciare. Bruciano le case, bruciano le macchine, bruciano gli enormi cumuli di rifiuti (uno dei problemi più gravi e urgenti, quello dello smaltimento dei rifiuti), bruciano le carcasse dei nemici e bruciano anche i Cebapcc sulle piastre a cielo aperto nelle città che riprendono vita. Brucia la polvere da sparo: in Kosovo si continua a sparare, di giorno, qualche volta, per uccidere, e di notte, tutte le notti, per spaventare o per minacciare. Brucia il gasolio nei motori dei trattori e dei fuoristrada umanitari, non c?è altro modo per spostarsi in Kosovo, le ferrovie sono ferme, gli autobus arruginiti collegano quel che possono. Arriviamo a Peja a fine mattinata e il fumo sale ancora dal ristorante bruciato alle cinque del mattino con bottiglie incendiarie. Il ristorante, sino al 9 giugno di proprietà di una famiglia serba, era già stato rilevato dagli albanesi, eppure è stato distrutto: in città riprendono vita i veleni di sempre, provocazione serba, guerra tra albanesi. Ognuno spara la sua, i militari italiani della Kfor dicono: «Non pagava il pizzo». Ce ne andiamo alle 19 poco dopo aver visto altri due incendi che colpiscono le case di due famiglie serbe.
La guerra ha bruciato anche la struttura amministrativa e civile della Regione, non c?è legge, non ci sono poliziotti, non ci sono giudici. I militari italiani a Peja mettono trutte le pezze che possono: raccolgono i rifiuti per spostarli un po? più in là, fanno posti di blocco, controllano (600 fermi, temporanei com?è ovvio non esistendo legge, e 1200 perquisizioni in un mese), fanno persino un lavoro di anagrafe dei danni subiti dalle scuole e dagli edifici religiosi nella loro zona di competenza, aspettando che l?Onu riesca a fare qualche passo amministrativo.

Il nuovo disordine mondiale
All?Hotel Metohjia di Peja è alloggiato il comando italiano Kfor; intorno un vero campo dove trovano alloggio 1000 dei 5000 soldati italiani mandati qui. Ci passiamo un pomeriggio, parliamo con un colonnello, un capitano, un maresciallo. Ometto i nomi perché le leggi militari non prevodono la sincerità, ma il mio quaderno è pieno di sfoghi. Un capitano: «Cosa vuole che facciamo qui: sino a che l?Unmik (Missione in Kosovo dell?Onu capitanata dal francese Kouchner, n.d.r.) non si sveglia la nostra presenza è pressoché inutile. Siamo alle prese con questi farabutti dell?Uck che dicono una cosa e ne fanno un altra. Cerchiamo di controllare il territorio con i check point, diamo una mano in città, abbiamo montato un ospedale da campo efficiente, 2000 visite in un mese, cerchiamo di salvaguardare un minimo di sicurezza per le nuove vittime, i rom e i serbi, presidiando i loro villaggi, o scortandoli nelle chiese ortodosse, e, mi scusi, cerchiamo anche di garantire la nostra sicurezza, visto che qualcuno spara anche a noi». Un maresciallo: «Cerchiamo di supplire al fantasma dell?Unmik. Ma lo sa he i loro rappresentanti sono arrivati qui questa settimana? Sono in quattro e hanno preso il più grande palazzo di Peja, 10 piani, una ex banca (a proposito il sistema bancario non esiste più in Kosovo), e solo oggi (il 22) sono venuti a presentarsi da noi. Lo sa che Kouchner ha nominato un solo giudice per tutta la nostra regione? Lasciamo perdere. Invece dica in Italia che qui bisogna mettere a posto le scuole, oggi abbiamo consegnato al rappresentante Unicef la nostra indagine: il 35% sono distrutte, un altro 40% è da risistemare e il primo settembre è vicino, vicinissimo. Vincerà almeno questa piccola scommessa la comunità internazionale?».
Vicino a Peja ci imbattiamo in un funerale serbo scortatissimo dai militari. Donne e bambini inveiscono contro tutti. Poco lontano stanno sotterrando 8 corpi di una fossa comune, i vessilli dell?Uck sono dappertutto: sulle bare, sulla montagnetta di terra, sugli annunci mortuari appesi agli alberi e bordati dal rosso albanese. Ci dicono che ogni giorno in Kosovo si chiudono 50 tombe, di serbi albanesi, rom. Ma è questo il nuovo ordine mondiale?
Di ritorno a Pristina il senso di caos e Far west ci insegue: l?ingegnere serbo che doveva sovrintendere alla riparazione della rete telefonica in Kosovo (oggi non si può telefonare da una città all?altra) se ne è andato. Sua moglie è stata aggredita al mercato. Un altro profugo si aggiunge ai 130 mila serbi che questo mese hanno lasciato la regione. Centotrentamila che si aggiungono ai 700 mila profughi di Croazia e Bosnia. La comunità internazionale di loro continua a fregarsene. E già i primi serbi sono stati buttati a mare dagli scafisti nel Salento.

La macchina umanitaria
Il più grande datore di lavoro a Pristina è la macchina umanitaria. L?efficientissimo ufficio del Cesvi ne ha assunti in queste settimane 41, ma a regime saranno 70. Alle otto del mattino fuori dalla porta dell?ufficio c?è già la coda di kossovari che presentano regolare curriculum. L?ultima pagina del quotidiano in lingua albanese più diffuso in Kosovo è occupata da un annuncio di ricerca del personale dell?U.S. Office Pristina. Tutte le grandi agenzie Onu (Wfp, Unicef, Unhcr, Oim…) hanno preso i palazzi più belli e insediati uffici e personale (non di colore perché gli albanesi non gradiscono); secondo i regolamenti dell?Onu il 20% del personale dovrebbe essere serbo. Peccato non se ne trovi più uno. Le ong accreditate al 23 luglio sono 137, ma altre stanno arrivando. Si calcola che a fine luglio sui 120 mila abitanti di Pristina almeno 12 mila lavoreranno per le agenzie umanitarie. In Kosovo stanno arrivando milioni e milioni di dollari, siamo certi che saranno usati bene. Ma l?impressione amara è che tutto continui ad accadere con grande ritardo. È successo così quando la marea kossovara s?è riversata fuori dai propri confini e il mondo era impreparato (ricordate la vergogna di Blace e di Kukes?); è successo così quando la piena del rientro ha travolto ogni piano e programmazione; sta accadendo così oggi rischiando di programmare aiuti che arriveranno forse tardi e soprattutto dimenticando la nuova emergenza dei nuovi profughi serbi e rom cui anche l?Italia ha chiuso la porta in faccia. Nel nostro pellegrinare incontriamo gli amici di Giovanni XXIII e Beati i costruttori di pace (con cui avevamo dato vita a ?Io vado a Pristina?), loro non portano aiuti ma amicizia e condivisione. Stanno a Koradzeva, non lontano da Peja, per curare un gruppo di rifugiati serbi della Krajna che vagano da quattro anni nella Federazione Jugoslava (il Cesvi porterà loro aiuti alimentari) senza più identità ed averi. A Peja si sono organizzati per aiutare una anziana serba di 92 anni, fanno piccole commissioni e convincono i bambini a non tirare i sassi alla sua finestra. A Strellc hanno aiutato il villaggio a ritrovare percorsi di autorganizzazione e di rappresentanza autonoma e non imposta dall?Uck. Avessero ragione loro? Se un domani c?è per il Kosovo io l?ho visto lì, in questi segni di amicizia.

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