Non profit

Far tesoro del conflitto

L'esperienza innovativa del Gruppo Abele alla periferia di Torino

di Sara De Carli

Hanno scelto San Salvario, quartiere simbolo delle criticità urbane. Il loro lavoro consiste nel ricostruire i legami. Sapendo che spesso
la litigiosità è l’unico modo per mettersi in relazione con gli altri. E che quindi spesso nasconde
un bisogno di rapporti.
Da leggere e aiutare
L’emblema del livello di rancore che anima le nostre comunità ce l’ha consegnato la tv. Una emittente locale ha mandato in onda un giovane uomo armato di fucile, pronto a sparare a chi gli rubava le tinche. In una società che ha superato da tempo l’economia di sussistenza, la difesa delle tinche è simbolo perfetto della difesa del proprium – superfluo, banale, ridicolo ma proprium. All’escalation di conflittualità la politica ha dato di recente due risposte: da un lato sicurezza, controllo e ordine pubblico, dall’altro l’ipotesi di una riforma del processo civile che obbliga a passare dalla mediazione (meglio sarebbe dire conciliazione) prima di avviare una causa per questioni di ordinaria conflittualità, come le liti condominali. In entrambi i casi si dimentica che per molti il conflitto è l’unica forma disponibile di relazione con gli altri.

Litigare per stare in relazione
Prendersi cura della relazione è l’obiettivo della mediazione di comunità. Cura diretta della patologia contemporanea per eccellenza. La fanno, dal 1995, al Gruppo Abele di Torino. Nel 1998 sono stati i primi ad aprire la Casa dei Conflitti. Hanno scelto San Salvario, quartiere simbolo delle criticità urbane legate all’impatto dei flussi migratori. «Ordine pubblico, facilitazione dell’imprenditoria, cura non di specifiche fragilità ma del legame sociale, che è anche cura del territorio e ricostruzione di una appartenenza»: così l’avvocato Fabrizio Giorcelli, responsabile della Casa dei Conflitti, ricorda l’esordio. Dieci anni dopo, dal suo osservatorio – una vetrina sulla strada con accesso libero per le consulenze e una équipe multidisciplinare di sette operatori (avvocati, psicologi, sociologi, psicoterapeuti) specializzati in mediazione – un aumento della conflittualità lui non lo vede proprio. Semmai «un aumento della solitudine, della percezione delle fragilità dell’esistenza, che preoccupa. La risposta securitaria è quindi solo una parte della risposta, l’altra è il lavoro per ricostruire i legami».
Allo sportello di mediazione si rivolgono almeno 200 persone l’anno. Meno del 20% sfocia in un percorso di mediazione: basta varcare quella soglia per cambiare punto di vista. Il 40% dei conflitti sono familiari: fratelli con un genitore anziano che litigano su chi deve prenderlo in casa e sulla compartecipazione alle spese; genitori esasperati da figli ribelli; fratelli contitolari di piccole aziende. Sono questi i casi in cui «è più evidente che l’approccio giudiziario, che mira a risolvere il conflitto individuando le responsabilità, non è la strada più efficace, perché lascia sullo sfondo le emozioni e la relazione. Se il conflitto è un fotogramma di un film, la mediazione cerca di ricostruire la storia della relazione e soprattutto di ridarle un futuro», spiega Giorcelli. Infatti la mediazione ha successo quando le due parti tornano a parlarsi: gestire il conflitto, non necessariamente risolverlo.

Il conflitto etnico è un falso mito
Welfare dell’empowerment, non delle marginalità: tant’è che dentro Spazio d’intesa è sempre più dibattuta la questione se non sia il caso di far pagare un servizio che oggi è gratuito, in quanto in convenzione con enti pubblici. «La nostra utenza non è classificabile per ceti sociali, c’è davvero di tutto: certo chi arriva fino a noi invece di ignorare il conflitto, è qualcuno che ha veramente a cuore il legame in causa. Venire qua è un modo per dire che quel legame è importante», dice Giorcelli. Vale per tutti i conflitti.
Nella casistica di Spazio d’intesa un altro buon 40% è rappresentato dai conflitti di vicinato: rumori, fumi di grigliate, famiglie intere di cinesi che fanno la doccia alle tre di notte, «la perigliosissima questione dei turni per lavare le scale». Anche qui spesso il problema è altro da quel che appare e «la signora anziana che si lamenta delle troppe feste al piano superiore in realtà sta mettendo a tema la sua solitudine, la sua invidia per la socialità da cui è esclusa». Il 20% rimanente è mediazione di comunità in senso stretto, su percorsi che vedono coinvolti gruppi: la coabitazione tra etnie diverse in un quartiere, il problema della prostituzione piuttosto che dell’alcolismo rispetto a un territorio.
«Le sembrerà paradossale, ma l’elemento etnico pesa solo per il 10-15% del totale», spiega Giorcelli, «e comunque non porta mai tipologie specifiche di conflitto». Certo, in questi casi c’è in più l’elemento della mancata conoscenza diretta, come quella volta che un intero quartiere è andato in allarme, rabbioso, perché al negozio di alimentari africano scaricavano sacchi e sacchi di droga provenienti da Parigi. È bastato parlarsi: era solo farina.


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