Una delle richieste più ricorrenti degli imprenditori sociali ai ricercatori è la produzione di “mappe” che consentano di “leggere” il territorio. Fuori dallo slang da addetti ai lavori significa individuare in un contesto terrioriale delimitato (e già qui iniziano i guai) quegli attori – individuali e collettivi, formali e informali, pubblici e privati, ecc. – in grado di esprimere bisogni e risorse che afferiscono alla produzione tipica delle imprese sociali: coesione, cura, inclusione, ecc. E’ una cosa piuttosto complicata da fare. Serve infatti fiuto per scovare e dar valore a tutte le possibili fonti di informazione, oltre a capacità di relazione con gli “oggetti” di indagine e con la committenza. Gli output consistono di solito in rapporti qualitativi dove si lavora soprattutto sulle “curve di livello” della mappa, individuando cioé la rilevanza delle diverse visioni proproste. Spesso però si lascia sullo sfondo un’operazione preliminare altrettanto importante, ovvero la delimitazione del campo di osservazione e la prima identificazione degli interlocutori. Si dà quasi per scontato che il terreno sia già stato perimetrato con i suoi principali elementi caratteristici. E così il rischio è di riscrivere sempre la stessa carta dimenticando intere regioni (se non continenti). Fuor di metafora servono metodologie e strumenti in grado di restituire, anche in forma grafica, la rete di soggetti su cui poggia la produzione delle imprese a finalità sociale. Le indagini georeferenziali rappresentano una risposta semplice ed efficace. Vi propongo due esempi. Il primo è una mappa del tessuto associazionistico di Venezia e Mestre realizzata da una fondazione locale e segnalatami da una giornalista di Nova (l’inserto de Il Sole 24 Ore). Il secondo è uno strepitoso esempio di mappatura bottom-up (alla faccia di ricercatori più o meno sociali) che soddisfa un bisogno primario (presente soprattutto di mattina).
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