Welfare
Fallimenti adottivi: e se il post adozione non bastasse?
Il professor Jesùs Palacios ha presentato a Milano i dati di una recente ricerca sui fallimenti adottivi in Spagna: l'1,32%, lontano da quel bambino restituito ogni tre giorni di cui hanno parlato in Italia i giornali. I fattori di rischio? Età all'inserimento, permanenza in istituto, adozione insieme a fratelli. E una sorpresa: in Spagna i servizi di post adozione esistono, ma le famiglie non vanno a chiedere aiuto. Serve un cambio culturale: l'adozione non è un'impresa che può essere condotta in solitaria
Il post adozione è un aspetto centrale della vicenda adottiva, del suo successo, del benessere del bambino accolto e dell'intera famiglia. La necessità di creare una rete di servizi che accompagnino le famiglie ben al di là del primo anno dall’ingresso del minore adottato è giustamente una richiesta pressante nel momento in cui si ragiona di riformare la legge 184. Eppure forse ancora non basta.
In Spagna, dove esistono servizi di post adozione gratuiti e specializzati, composti da una équipe integrata di psicologi e neuropsichiatri, le famiglie che si trovano a fare i conti con un’adozione complessa e che vivono un momento di crisi,comunque non sempre si rivolgono a quei centri. «C’è ancora un intervento poco specializzato, disorganizzato, sporadico, anche in quei periodi critici che precedono il vero e proprio fallimento adottivo», ha detto nei giorni scorsi il professor Jesùs Palacios, professore dell’Università di Siviglia, che ha presentato i risultati della sua recente ricerca sui fallimenti nell’adozione all’Università Cattolica di Milano, all’interno di un seminario organizzato dal Centro di Ateneo di Studi e Ricerche sulla Famiglia e dal dipartimento di Psicologia. Andando a ritroso, ovvero analizzando le storie di adozioni fallite che il professore ha incontrato, emerge che solo il 18% ha bussato alle porte di un servizio di post-adozione, il 25% a un professionista esperto di adozioni, mentre ben il 53% si è rivolto a professionisti senza competenza specifica nell’ambito dell'adozione.
Il post-adozione va indubitabilmente potenziato, anzi in molti casi direi proprio “creato”. I dati spagnoli però ci confermano anche la necessità di un cambiamento di prospettiva culturale: l’adozione non è esclusivamente un canale per avere un figlio, l’adozione ha in sé una intrinseca dimensione sociale. Se i genitori hanno fin dall’inizio questa prospettiva, saranno più predisposti a chiedere aiuto: adottare non è un’impresa che può essere condotta in solitaria.
Rosa Rosnati
Per Rosa Rosnati, docente di Psicologia dell'adozione, dell'affido e dell'enrichment familiare presso lo stesso Ateneo, «il servizio di post-adozione va indubitabilmente potenziato, anzi in molti casi direi proprio “creato”. I dati spagnoli però ci confermano anche la necessità di un cambiamento di prospettiva culturale: l’adozione non è esclusivamente un canale per avere un figlio, l’adozione ha in sé una intrinseca dimensione sociale. Se i genitori hanno fin dall’inizio questa prospettiva, saranno più predisposti a chiedere aiuto: adottare non è un’impresa che può essere condotta in solitaria. Fin dal momento della valutazione delle coppie è importante tenere conto della loro disponibilità a confrontarsi con altri, a mettersi in rete, aiutarli non solo a maturare le competenze genitoriale ma anche ad acquisire delle competenze genitoriali terapeutiche per consentire ai bambini di recuperare dopo le esperienze traumatiche che hanno vissuto», spiega.
Uno strumento privilegiato sono i gruppi di genitori, che permettano ai genitori di focalizzare per tempo alcune problematiche e intervenire in modo adeguato: «è importante lavorare sulla dimensione preventiva, le famiglie tendono a chiudersi nel loro privato e fanno fatica a capire quanto le difficoltà che incontrano sono riconducibili all’adozione e quanto sono invece normali passaggi critici. Sono gruppi di enrichment, che valorizzano le risorse e i fattori protettivi», continua. Resta poi, ovviamente, la necessità che «nel curriculum dei professionisti che si occupando in generale di infanzia e famiglia, psicologi e assistenti sociali in primis, ci sia una preparazione specifica sull’adozione, perché la scarsa formazione sulle tematiche adottive porta a fare interventi che agiscono più sul sintomo, con gli stessi strumenti che si utilizzano nelle situazioni in cui non c’è l’elemento adozione, mentre i vissuti di traumi e trascuratezza comportano delle specificità».
Please, don’t misunderstand the data. I fallimenti adottivi non sono un’eccezione e non possono essere ignorati, ma la stragrande maggioranza delle adozioni sono storie bellissime di accoglienza. Certamente da qui deve derivare la consapevolezza di un intervento professionale ancora migliore, che può ridurre per quanto possibile il numero fallimenti.
Jesùs Palacios
Ma cosa ha detto il professor Palacios? Quali dati ha portato? Vita c’era, ma prima di fare una sintesi del seminario è d’obbligo sottolineare l’appello che il professore ha ripetuto più e più volte, quasi come un accorato refrain: «Please, don’t misunderstand the data». I fallimenti adottivi nella sua indagine sono l’1,32% delle adozioni, adozioni cioè che sono terminate con il collocamento al di fuori della famiglia adottiva e con l’interruzione dei rapporti con essa e ben il 4,4% delle adozioni sono «ad alto rischio»: i fallimenti adottivi «non sono un’eccezione e non possono essere ignorati, ma ricordiamo che la stragrande maggioranza delle adozioni sono storie bellissime di accoglienza». Certamente da questi casi drammatici deve derivare la consapevolezza di «un intervento professionale ancora migliore, che può ridurre per quanto possibile il numero fallimenti».
I numeri
L’indagine del professor Palacios si riferisce agli anni 2003-2012, in un’area geografica specifica. I fallimenti hanno riguardato l’1,32% delle adozioni, così dettagliate: il 2,09% delle adozioni nazionali durante il primo anno di affido preadottivo, il 2,13% delle adozioni nazionali definitive e lo 0,31% delle adozioni internazionali. Numeri molto inferiori a quel 3% di cui si parla generalmente in Italia (cfr Le crisi dell’adozione, condotta nel 2012 dalla Regione Veneto e il 2, 86% rilevato di recente dalla Regione Emilia Romagna nel report Dieci anni di adozioni in Emilia Romagna).
I bambini
Che caratteristiche hanno i minori che vivono il dramma del fallimento della loro adozione? Qualche tratto comune esiste. Intanto essere maschio o femmina non conta: se i minori adottati sono per il 47% maschi e per il 53% femmine, il genere resta rappresentato in modo analogo all’interno del sottogruppo dei fallimenti adottivi (49% maschi, 51% femmine).
Conta invece e molto l’età in cui è avvenuto il collocamento in famiglia. Il 94% dei fallimenti riguardano bambini che sono stati inseriti in famiglia quando avevano più di due anni, ma attenzione, se è vero la “late adoption” è un fattore di rischio, non c’è un incremento lineare tra l’età dei bambini al momento dell’inserimento e il fallimento adottivo. Contrariamente a quanto si pensa, il rischio non aumenta con l’aumentare dell’età e un bambino adottato da grande non è un bambino molto più a rischio.
Se l’età media dell’inserimento in famiglia per i bambini adottati, nella ricerca spagnola, era di 2,8 anni, nei casi andati poi incontro al fallimento i bambini erano stati accolti in famiglia a un’età media molto più elevata, 7,5 anni: cinque anni dopo la media: «in molti casi i servizi hanno aspettato troppo!», ha sottolineato il professore.
Un altro fattore di rischio è l’adozione di fratelli: il 40% dei fallimenti adottivi coinvolge adozioni di fratelli. in poco più della metà dei casi il fallimento riguarda tutti i fratelli, mentre quando ad essere allontanato è solo uno dei figli, nel 70% dei casi si tratta del figlio maggiore. «Di fronte a una situazione a rischio, pertanto, fate attenzione al fratello più grande: questo è il messaggio», ha detto il professore alla platea di operatori presenti.
Che età hanno i bambini al momento dell’allontanamento dalla famiglia adottiva? Tipicamente si trovano sulla soglia dell’adolescenza. La media è di 12 anni nelle adozioni internazionali, dopo 4 anni in famiglia e di 14 anni per le nazionali, dopo 8 anni in famiglia: «segno che i genitori adottivi non si arrendono facilmente, perché solo nel 27% dei casi i problemi compaiono solo con l’adolescenza, solitamente i problemi compaiono fin da subito».
I campanelli d’allarme
Palacios ha individuato tre aree problematiche: attaccamento, comportamento, violenza. Nel 60% dei casi di fallimento adottivo, esistevano problemi di attaccamento, che nel 69% dei casi si erano manifestati fin da subito. L’80% dei bambini aveva manifestato problemi comportamentali (aggressività, fuga, nei comportamenti sessuali), molto spesso palesatisi fin dall’inizio dell’adozione: l'adolescenza cambia radicalmente il comportamento dei minori solo nel 27% dei casi.
Il 63% dei vissuti infine era caratterizzato da una violenza: del minore sui genitori, dei genitori sul minore, tra fratelli. Il collocamento fuori famiglie è deciso nella gran parte dei casi dai genitori: solo un quarto di essi fa poi un tentativo di reinserimento in famiglia. Una volta allontanato, il 39% dei minori non ha più nessun contatto con la famiglia.
Le conclusioni
Esistono dei fattori di rischio nelle adozioni, che sono il collocamento in famiglia sopra i due anni di età, l’adozione di gruppi di fratelli, le motivazioni degli adulti, l’interpretare spesso i problemi in fase di esordio come normali problemi di adattamento, che si risolveranno con il tempo. «I fattori di rischio però non sono predittivi del fallimento di un’adozione, i fallimenti spesso vedono accumularsi tra loro più fattori di rischio e in ogni caso accanto ai fattori di rischio bisogna sempre tenere conto dei fattori di protezione», ha ripetutamente spiegato Palacios. Dal punto di vista dei professionisti, è stato sottolineato come si tenda a proporre servizi di consulenza e si facciano invece pochi interventi per sviluppare l’attaccamento e di come siano da evitare i periodi di attesa inutile in istituto. La Spagna in particolare ha da poco cambiato la sua normativa di riferimento, ponendo un limite di due anni ai tentativi di recupero delle capacità genitoriali delle famiglie di origine e proibendo l’istituzionalizzazione per i minori sotto i 3 anni.
Dalla Spagna all’Italia
Cosa dice all’Italia la ricerca del professor Palacios, soprattutto nel momento in cui ci accingiamo a rivedere la legge sulle adozioni? «I dati confermano le potenzialità dell’adozione, la bontà di questo strumento: i fallimenti sono un fenomeno rilevante perché drammatico, ma percentualmente ridotto», spiega ancora la professoressa Rosnati. «Bisogna lavorare molto sulla prevenzione, che oggi non viene fatta: potenziare il post adozione e i servizi specialistici, che dopo il primo anno non ci sono». Anche l’Italia avrà presto una sua fotografia del problema: «Come Centro di Aeneo Studi e Ricerche sulla Famiglia stiamo approntando una ricerca sulle crisi adottive, per mappare i fattori di rischio associati, per questo cerchiamo operatori che abbiano seguito casi di ragazzi adottati che sono stati collocati fuori famiglia», conclude la professoressa.
Foto STR/AFP/Getty Images
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