Lo so. Scrivono ormai saggi e tesi di laurea sulle relazioni umane al tempo di facebook. Non è che arrivo io e scopro l’acqua calda. Però qualche riflessione, ogni tanto, vale la pena di farla. Pacatamente e serenamente. Sono stato appena definito da una signora, madre di un ragazzo con disabilità, “diversamente pieno di me”. La signora non mi conosce, e io non conosco lei. Le poche cose che posso dedurre le trovo nel suo profilo. Crede in Dio ma non in chi lo rappresenta. E’ sicuramente una mamma preoccupata giustamente del destino del proprio figlio che ha avuto un incidente stradale anni fa, e ora, come è capitato a me da molto più tempo, vive in sedia a rotelle. Dice di avermi chiesto la famosa “amicizia” su facebook ma io non me ne sono accorto. Di più: scrive, davvero irritata, che non ho risposto alle sue ripetute richieste di consiglio e di aiuto. Sicuramente ha ragione lei. Non ho motivo di dubitarne. E sono sinceramente dispiaciuto di questa mia disattenzione. Aggiunge che la ignoro mentre clicco “mi piace” solo a chi commenta in modo positivo le cose che scrivo. Insomma si è sentita esclusa, maltrattata, tenuta fuori della porta virtuale della mia cerchia di “amici”.
Sono personalmente sempre in lotta con questa storia della richiesta di “amicizia”. Il limite è di cinquemila. Sono tantissimi, direte. Vero. Troppi. Non so come mai, ma ogni settimana raggiungo questa soglia malefica e poi sono costretto a tagli effettuati con pazienza certosina, cercando di non eliminare amici veri, o comunque vecchie conoscenze, delle quali magari mi sono solo dimenticato. Ho provato anche a farmi una pagina pubblica, il che mi fa anche ridere. In ogni caso non riesco a gestirla, lo confesso, sono umano. Ho molti limiti, e non perché sono una persona con disabilità. Ma proprio perché il tempo è quello che è. Facebook (ora si aggiunge anche il malefico giochino di twitter) prende almeno un paio d’ore di vita quotidiana. Forse più. Certo non continuativamente, ma è una delle pagine del browser costantemente aperte. Perché? Beh, chi lo usa lo sa benissimo perché. Diventa una sottile dipendenza da comunità virtuale. Non c’è solo il proprio profilo personale, ma anche i gruppi con i quali si condividono interessi. Non nego – come potrei? – che amo concludere la giornata fra battute e scherzi dei miei amici interisti come e più di me. Non dovrei? Sarebbe meglio che io mi dedicassi indefessamente e costantemente solo ai guai che affliggono quotidianamente le persone disabili e le loro famiglie? Forse sì. Il senso di colpa, ogni tanto, mi assale.
Ma poi lo ricaccio giù. Nella mia vita telematica ci sono infatti mediamente circa cento messaggi di posta elettronica al giorno da leggere, smistare, controllare, inoltrare, e ai quali rispondere, in modo possibilmente intelligente. Poi conto almeno una ventina di messaggi personali nella casella di facebook. Vado avanti? Un centinaio, forse più, di “notifiche” ogni volta che apro facebook. Una quantità di richieste di “amicizia” (quelle inevase sono oltre 900). Qualcosa non funziona. Tenete conto che io non sono nessuno. Non ho poteri di alcun genere. Non ho posizioni politiche di rilievo, non posso offrire posti di lavoro né posizioni di carriera, non ambisco ad emergere in termini personali, sono solo un giornalista in pensione che ama ancora scrivere e dialogare con i propri lettori. Poi, certo, sono anche una persona con disabilità, impegnato per quel che posso (anche come portavoce di Ledha, la Lega per i diritti delle persone con disabilità) a difendere quel che resta dei diritti costituzionali e delle leggi. Ho una compagna e un gatto ai quali devo e voglio dedicare un po’ del mio tempo. Tralascio la questione della salute, per non incorrere nella giusta reprimenda dei medici e dei terapisti che mi seguono da lontano (nel senso che io non mi faccio mai vedere, se non in situazioni di emergenza).
Che cosa desidero, allora? Niente, solo un po’ di educazione e di comprensione umana. Mi piacerebbe mantenere con i social network quel piacevole rapporto di leggerezza e di auto-aiuto che ha trasformato questi nuovi strumenti in compagni difficilmente sostituibili (ma sempre migliorabili). E invece assisto un po’ attonito a una crescente aggressività verbale, del tutto ingiustificata, secondo me, specialmente quando non è collegata almeno ad un rapporto reale di conoscenza reciproca. Ho visto in questi ultimi anni tantissime persone, uomini e donne, entrare e uscire dalla mia vita virtuale, come se io fossi un juke-box o uno scaffale di supermercato. Cercano la merce che in quel momento gli serve, magari ti rovesciano addosso i loro guai, le loro paure, le ansie del nostro tempo, succhiano e attingono a piene mani (perché in realtà, nei limiti del possibile, non mi tiro indietro…) e poi scompaiono, verso nuove mete, salvo poi tornare, tempo dopo, come se niente fosse. Di me, della mia vita, dei miei problemi, poco o nulla sanno, e mi considerano, solo per questa evidenza pubblica, un tipo forte, uno che è sempre lì, lì nel mezzo, come cantava Ligabue.
Non me lo ordina il medico, direte voi. Certo, ma io non voglio smettere, non voglio rinchiudermi. Vorrei solo vivere in un mondo un po’ più rispettoso ed educato, come piaceva ai miei genitori, magari un po’ borghesi, ma di buone maniere. E dunque stasera ragionerò su questa affermazione, cioè che io sarei “diversamente pieno di me”. Forse magari è perfino un complimento involontario. Eppure io credo di essere solo e semplicemente Franco, un ragazzo di 60 anni, con tutta la vita davanti. Faccialibro è solo un mezzo per condividere qualche frammento. Commenti liberi, qui, in questo blog che è nato ben prima di facebook. Ma per favore, fate piano. E chiudete la porta.
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