Politica

Expo, meglio pensarci prima

di Franco Bomprezzi

E’ andata anche meglio di quanto potessi immaginare. Una sala piena di persone attente e consapevoli, una mattinata fitta di interventi a braccio, non cattedratiche, sul tema “Expo senza barriere”. Il mondo del sociale, nella realtà metropolitana milanese, è vivo e attento e vuole essere coinvolto come risorsa attiva in tutte le fasi di pensiero che riguardano il grande evento fieristico del 2015. L’incontro di studio promosso dalla Provincia di Milano, che ho avuto il compito piacevole di condurre, è stato utile per inserire una riflessione specifica sul tema dell’accessibilità dell’Expo anche alle persone con disabilità in un contesto più ampio di inclusione, che comprende anziani, società civile, immigrati, nuovi poveri, giovani, volontariato attivo.

E’ curioso come per ora il volontariato sia entrato nell’Expo solo come numero ipotetico, qualche decina di migliaia di cittadini, da utilizzare come l’esercito, per fornire manodopera a costo zero in tutte quelle mansioni di accoglienza breve che sicuramente saranno necessarie. Ma, a parte un convegno promosso da Cariplo nel giugno scorso – come hanno rilevato in molti, in particolare don Davanzo di Caritas – non c’è stato mai un momento pubblico e trasparente di confronto con il mondo del sociale organizzato.

Come se Expo 2015, per il suo comitato organizzatore, formato peraltro da istituzioni pubbliche, fosse solo una questione economica di mercato dei flussi e degli eventi, un grandissimo business che crea ricchezza e occupazione. Nessuno nega l’opportunità economica e che ci si preoccupi anche di questa ricaduta in termini di sviluppo, che sicuramente andrebbe a beneficio dell’intera comunità, ma è gravissimo che su questo tema si crei una frattura assoluta fra gli organizzatori del business e la società civile.

Le scelte infrastrutturali, ad esempio, non sono neutre. Investire su opere costose significa non avere risorse per migliorare la mobilità esistente, la rete metropolitana, gli accessi alla città, la fruibilità degli alberghi, dei luoghi, degli eventi. 

Interessante e coinvolgente, ad esempio, la relazione di Tito Boeri e Michela Braga sull’indagine effettuata sui senza fissa dimora a Milano: cifre impietose, sono circa quattromila, molti più di quanti venivano stimati. Quattrocento vivono in strada, gli altri in dormitori, baracche, roulotte. Gente giovane, spesso colta, ancora con qualche lavoro saltuario, assai lontani dallo stereotipo emarginante del clochard, del barbone, ma non per questo meno bisognosi di una attenzione nuova. Che cosa succederà con l’Expo? Verranno semplicemente rimossi dai luoghi di impatto della città? O possiamo provare ad utilizzare questi anni per affrontare questo tipo di emarginazione trovando soluzioni attive, positive, magari in funzione di qualche lavoro proprio in vista di Expo?

La sensazione che ho provato, nell’ascoltare rappresentanti delle associazioni, esperti di accessibilità, esperti di turismo per tutti, è che esiste una rete di competenze importante, una ricchezza da sfruttare e non da snobbare, alzando le spalle, pensando “lasciateci lavorare, tutto questo non vi riguarda, non ci sono soldi per voi”. Expo è in ritardo, ma questo può essere un ottimo motivo per iniziare a ragionare insieme al terzo settore per progettare in modo intelligente, per investire pensandoci prima, pensando al dopo.


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