Ci sono argomenti che sono destinati a durare. Uno di questi è il pane, o meglio lo spreco del pane che appena dopo le feste ha acceso i riflettori su una città come Milano dove s’è parlato di 180 quintali di pane buttato al giorno. Le repliche sono state diverse: chi ha detto che il pane non si butta via ed è un sacrilegio, chi invece che il pane di oggi alla sera è immangiabile. Poi ci sono state le risposte concrete. Una di queste è arrivata da Bergamo, che da tempo aveva in essere la proposta di un pane locale, fatto con semola rimacinata di grano duro, farina integrale, farina gialla, farina di grano saraceno, biga di almeno 16 ore, malto, lievito di birra e naturalmente acqua, sale, un nulla di zucchero e olio extravergine di oliva. È la ricetta della Garibalda, la pagnotta fragrante presentata ufficialmente in due versioni: un panino a vela e una pagnotta bislunga da tagliare a fette, comoda anche per le bruschette. Ho assaggiato subito questo pane, che aveva nei suoi ingredienti almeno tre elementi autoctoni: le farine, il sapere dei panettieri nostrani e la moralità della gente di queste vallate e di questi paesi, non certo abituata alla spreco davanti a una cosa sacra come è il cibo, e in particolare il pane. Be’, la cosa che più mi ha colpito è stato avvertire un pane che aveva un profumo, ricco già nei suoi aromi. E poi la sorpresa di trovarlo buonissimo anche dopo due giorni, come i pani di una volta che nascevano, magari, in quel luogo di integrazione sociale che era il forno turnario. Attorno al tavolo, in Camera di commercio, con gli esponenti dell’associazione panificatori e altre realtà del territorio, ho poi visto entusiasmo, come quando nasce una cosa che segnerà una tradizione, traendo dal passato qualcosa di attualissimo. Non è il pane di ieri, per intenderci, ma quello di oggi, che ha in sé anche elementi di leggerezza. L’unica cosa che non è stata cambiata sono i tempi di lievitazione, quelli che rendono il pane vero e lo conservano per più tempo evitando la vergogna dei giorni nostri che si chiama spreco. Grazie Bergamo!
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