Non profit

Euroscettici mi avete stufato. Io voglio osare e sognare

Perché Cohn-Bendit "l'europeo" non è né un opportunista, né un illuso

di Carlotta Jesi

C’è chi nell’Europa ha trovato un riscatto. Chi un orizzonte, e chi un progetto. Io, per esempio… I’m European, sono europeo. Avevo 20 anni la prima volta che ho sentito questa frase. In tasca una borsa Erasmus in Ecu e una student card dell’università di Edimburgo che, oltre a un appartamento, dà diritto a un budget per creare la tua associazione studentesca. Sportiva, culturale, politica, ecologista, la più vicina ai tuoi sogni o la più lontana da ciò che ti manda in bestia. Una sorte di “dote attivismo” che manda un messaggio: hai il potere di fare qualunque cosa, e un po’ da te me lo aspetto!. È Freshersweek, la settimana della matricola, e un ragazzo tedesco risponde al mio «sono italiana» con quel «I’m European». Secco, orgoglioso, una bandiera. Ha 25 anni, ed è un ex militante della Ddr col mito della California e di Kerouac. L’essere europeo, per lui, è un riscatto, un sogno, un orgoglio. Una bandiera in cui si sente a casa, un dna grande abbastanza per contenere lui, che ha sostituito il distintivo della Germania Est con una spilletta della Beat Generation, e al tempo stesso me.
I’m European. L’ultima volta che ho sentito questa frase è uscita dalla bocca di Danny Cohn-Bendit, il leader di Europe Ecologie, i Verdi di Francia che hanno fatto sognare gli elettori e raggiunto il 16,3%. Una frase che, oggi, più impopolare è difficile. Apolide per scelta fino ai 18 anni, a chi gli rimprovera di essere tedesco o francese a seconda di quel che gli conviene, Danny risponde: sono un ebreo tedesco, sono europeo. Con lo stesso orgoglio del mio amico ex Ddr dice che nella bandiera blu con le 12 stelle d’oro ha trovato un riscatto. Un sogno. Un orizzonte, che è la stessa cosa di un progetto. Anzi, è il progetto dei progetti: tutto da costruire. Lo so per esperienza. Da neolaureata che atterra a Bruxelles con un badge da stagista dell’Europarlamento e che poi torna a Milano delusa dalla burocrazia. Ma non dall’Europa. Da trentenne che ha fatto la coda davanti a un bancomat aspettando l’uscita del primo euro. Da mamma a cui la partita italiana sulle Europee, le veline e le borse Erasmus che rimangono nei cassetti ricordano una favola di Gianni Rodari, Il semaforo per il cielo. Ricordate? Una mattina il semaforo di piazza del Duomo, a Milano, impazzisce. Spegne il giallo, il rosso, il verde e accende il blu. I passanti, scettici, rimangono bloccati sul marciapiede. Gli automobilisti inveiscono contro il sindaco. Fino a quando arriva un vigile e toglie la corrente al semaforo che, prima di spegnersi, dice: «Peccato, era un segnale per imparare a volare. Non l’hanno capito».
L’euroscetticismo è spegnere quel semaforo: c’è un universo più grande, in cui impari che puoi fare la differenza, in cui ti confronti, capisci che la raccomandazione, la lobby, la scorciatoia, non è l’unica regola lavorativa, o di vita, che c’è. In cui osi sognare, e non ti fai togliere la corrente. Dire «I’m European» oggi, in Italia, sarebbe come dire «Yes, we can»… Obama è lontano, ma Danny il verde no.


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