Cultura

Europe vs. Facebook. La nostra privacy svenduta, ma c’è chi dice no

La nostra privacy è sempre più in pericolo. Al centro dell'attenzione c'è il progetto "Prism" della Agenzia di Sicurezza nazionale (NSA) statunitense a cui Facebook avrebbe ceduto milioni di dati di utenti ignari. Contro questa ingerenza, un ex studente austriaco inizia una class action a cui tutti potranno partecipare

di Marco Dotti

Che cosa significa oggi, nel concreto, il termine privacy? Un'astratta tutela di un diritto – l'ennesimo – o qualcosa di più? Storicamente, con questo termine si indica un diritto alla riservatezza della propria sfera privata. Così è stato usato nei rotocalchi italiani a partire dagli anni '50 e così è stato accolto sul piano giuridico.

La riservatezza, beninteso, è sempre stata tutelata, ma i mezzi per aggredirla si limitavano alla tutela della vita privata di vip o persone al centro di casi di cronaca rosa, nera o giudiziaria da indebite intromissioni di fotografi, paparazzi e poco altro. Oggi, tutto è cambiato, perché tutti siamo cambiati. Ed è cambiato il mondo.

Facebook in particolare ha dato luogo a quella che lo psicologo israeliano Carlo Strenger ha chiamato "l'economia della celebrità". Sempre più persone, osserva Strenger, hanno paura "dell'invisibilità" e dell'irrilevanza. Paura di non essere viste, notate, accolte, per questo si sovraespongono, si denudano, si buttano anima e piedi nel cuore del marketing globale, lavando i panni sporchi in quelle pseudo piazze che sono i social network. Social network che da parte loro, su questi panni – e su qualsiasi informazione ottenuta a costo zero – fanno affari. E per fare affari alimentano la retorica – oramai bolsa, in verità – della trasparenza della rete.

La domanda da porsi è dunque sostanziale: nella società dell'informazione che cosa significa privacy? Come suggeriva tempo fa uno dei massimi esperti mondiali di sistemi informatici e nuovi media, Jaron Lanier, privacy significa potere.

La privacy è alla base di delicati equilibri tra la persona e lo Stato (es: fino a che punto può spingersi il fisco nel prendere informazioni su di me?), tra la persona e la cittadinanza (es. fino a che punto è lecito rovesciare il normale processo politico e, anziché conquistare consenso, assecondarlo attraverso lo studio delle tendenza e degli umori diffusi?), ma anche tra la persona e il business (es quando cediamo informazioni sui nostri comportamenti di acquisto, accumulando punti su una tessera-fedeltà).

Privacy, nella società dell'informazione, sta così a significare il complesso di informazioni disponibili a qualcuno ma non a qualcun altro. Per questo si usa dire che chi perde il controllo sulla propria privacy, perde potere. Ma avere questo controllo richiede sempre più cura, più tempo, più scaltrezza e attenzione. Tempo e attenzione che non tutti sembrano disposti a impiegare. Di contro, complessi algoritmi lavorano giorno e notte per incrementare un divario digitale sommerso, tra mezzo e fruitore.

È il caso di Facebook, che di recente si è trovata al centro di uno scandalo per aver fatto esperimenti sui 700.000 utenti ignari di tutto e, dopo aver testato la loro reazione alterando le notizie che appaiono sulla pagina principale, ha ceduto i dati e permesso che venisse pubblicata una ricerca titolata “Experimental evidence of massive-scale emotional contagion through social networks”.

Per queste ragioni, Max Schrems, giovane giurista austriaco, ha deciso di intentare una class action contro la multinazionale di Mark Zuckerberg.

Schrems, che già da studente, nel 2011, aveva iniziato a lavorare al suo progetto pro-privacy, ha citato Facebook in giudizio. Lo ha fatto al Tribunale Commerciale di Vienna, per una causa che investe però anche l'Irlanda, vero e proprio El dorado per le multinazionali che intendono operare in Europa senza pagar dazio e dove ha legalmente sede Facebook Ltd. Contestualmente, Schrems, cyberattivista oramai molto noto, chiede a tutti gli utenti interessati, fuori dalla giurisdizione canadese e statunitense, di aderire.

Tra le violazioni che Schrems e compagni hanno rilevato, c'è quella di aver ceduto dati sensibili di utenti ignari al progetto "Prism" della NSA, l'agenzia che con la Cia e la Fbi si occupa della sicurezza nazionale statunitense. Siti visitati, profili frequentati, libri o musica acquistata: tutto è stato tracciato, tutto è stato archiviato, elaborato e ceduto agli "spioni" di turno.

Schrems ha citato in giudizio Facebook per l’ammontare di 500 euro, per danni e arricchimento senza causa, ma invita ciascuno a aggiungere le proprie rimostranze alle sue aderendo alla petizione. Schrems chiederà a nome 500 euro per ogni violazione e ridistribuirà la somma eventualmente ottenuta. “La somma richiesta”, ha dichiarato, “è bassa, perché a noi non interessano i soldi, ma i principi”. Per ristabilire una corretta simmetria tra poteri. Forse, questa è l'opinione del cyberattivista, è venuto il momento di agire o "raccogliere informazioni su di noi diventerà sempre più semplice per governi e agenzie".

Il caso – su cui torneremo – sta attidando l'attenzione dei media europei, dalla BBC a Der Spiegel e Schrems ha aperto un sito (e una piattaforma che assicura essere a prova di privacy) che spiega nei dettagli la vicenda, si chiama Europe vs. Facebook.

Ma soprattutto ha messo in funzione un'app, accessibile da questo link e attraverso la quale si possono verificare i propri dati e partecipare al progetto (attenzione: la app richiede la scansione di un documento di identità). La potete raggiungere da ►qui.

@oilforbook


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