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Europa, un premio alla memoria

di Sergio Segio

Da sempre ci sono i riconoscimenti alla memoria e quelli alle buone intenzioni. Il Premio Nobel per la pace all’Europa inaugura quelli d’incoraggiamento e di scongiuro. Se non precisamente e direttamente riguardo la pace, certamente rispetto alla coesione, a fronte degli scricchiolii della traballante impalcatura dell’Unione erosa dai voraci tarli della crisi e, prima ancora, dalla costitutiva debolezza delle fondamenta erette sul solo fattore monetario.
Come ha scritto il filosofo Jürgen Habermas: «Il fatto che il premio Nobel per la pace venga conferito alla Ue proprio in un momento in cui la Ue è più debole di quanto non sia mai stata nella sua storia, lo interpreto proprio come un appello implorante ed estremo alle élite politiche europee, quelle stesse élite che oggi vediamo agire nella crisi senza coraggio e senza prospettive».
Ai bisogni e alle preoccupazioni dei cittadini europei lacerati da disoccupazione, povertà, precariato, egoismi nazionali si risponde come la regina Maria Antonietta: mangiate brioches. Se la tirannia di spread, fiscal compact e spending review sottraggono il futuro, se le risorgenti guerre tra poveri e gli inossidabili rigurgiti neonazisti avvelenano il presente ci si può sempre consolare con il Premio Nobel. Alla pace, come estrema e paradossale ipocrisia. In effetti, Alfred Nobel, al cui nome è intitolato il Premio, è pur sempre stato l’inventore della dinamite.
Non sembrano proprio un contributo a “buttare fuori la guerra dalla storia” gli armamenti per svariati miliardi che annualmente l’Europa distribuisce in tutto il mondo. Nel 2010 sono stati venduti armamenti europei per 31,7 miliardi di euro. Peraltro, quasi la metà degli armamenti esportati è diretta verso il Sud del mondo e in particolare verso aree particolarmente incandescenti come i Paesi del Medio Oriente, verso i quali vi sono stati esportazioni di sistemi d’arma per 6,7 miliardi di euro; armi europee per due miliardi sono invece andate all’Africa, per 4,7 miliardi all’Asia e per 2,1 miliardi all’America centro-meridionale.
Armi europee hanno a lungo rafforzato e perpetuato dittature come quella di Gheddafi. Diversi Paesi europei (Austria, Belgio, Bulgaria, Francia, Germania, Italia, Regno Unito, Repubblica Ceca, oltre a Russia e Stati Uniti d’America) hanno fornito ingenti quantità di armi a governi repressivi del Medio Oriente e dell’Africa del Nord prima delle Primavere arabe. Armi che sono state poi utilizzate anche per le sanguinose repressioni delle sollevazioni popolari in Bahrein, Egitto, Libia, Siria e Yemen.
Del resto, le armi sono all’opera anche all’interno dello stesso continente europeo, dove all’inizio del 2012 risultavano in atto conflitti che riguardavano 9 Stati e 49 tra guerriglie e gruppi separatisti. Per non dire della ferita ancora sanguinante del conflitto nei Balcani, favorito dall’inanità e inesistenza della politica dell’Unione e, anche lì, dall’asservimento ai grandi interessi economici più o meno confessabili.
Ancor più invisibile, ma non meno letale, la guerra quotidiana in atto ai confini della “Fortezza Europa” che ha causato oltre 18.000 vittime nell’ultimo quarto di secolo, di cui ben 2.352 nel corso del solo 2011. Loro sì, in fuga da guerra, miseria e dittature, avrebbero meritato un Nobel. Anziché pace, rifugio, protezione hanno trovato un cimitero liquido e campi di concentramento, grazie alle miopie e agli egoismi europei e nazionali.
E se proprio si voleva e doveva dare quel Premio all’Europa, le sue motivazioni avrebbero dovuto più plausibilmente fare riferimento al modello di Stato sociale e al sistema di welfare europeo. In questo caso sarebbe però stato un premio alla memoria, dato che esso sta venendo rapidamente demolito dalle scelte delle istituzioni europee e dalla loro sudditanza alle ricette neoliberiste, al Fondo monetario e alle Banche centrali, vale a dire ai primi responsabili della crisi. Come ha dichiarato, con malcelata soddisfazione, il governatore della Banca Centrale Europea Mario Draghi: «Il modello sociale europeo è morto» (“Wall Street Journal”, 24 febbraio 2012).
L’Europa è morta, viva l’Europa.

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