Politica
“Europa: o scegli la democrazia o arriva il populismo”. Intervista con il filosofo Etienne Balibar
La socialdemocrazia europea è un cadavere ambulante. La politica arranca, la “terza via” è senza fiato. L’avanzata dei populismi – spiega in questa intervista il filosofo Etienne Balibar – impone una scelta tra un orientamento secondo cui l’aspetto democratico è più importante della dimensione nazionale e un altro in cui, invece, prevale la seconda. Quando oggi in Europa si parla di populismo è questa la posta in gioco
di Redazione
Tra i più autorevoli filosofi politici contemporanei, Étienne Balibar insegna Filosofia politica e morale all’Università di Paris X-Nanterre e alla University of California di Irvine. Tra i suoi libri, molti dei quali dedicati al tema della cittadinanza e delle dinamiche di inclusione e esclusione, ricordiamo: La paura delle masse. Politica e filosofia prima e dopo Marx (2001), L’Europa, l’America, la guerra (2003) e Noi cittadini d’Europa? Le frontiere, lo Stato, il popolo (2004). L'intervista che qui riprendiamo è tratta
A metà del 2012 lei ha dichiarato: “siamo tutti greci, siamo tutti europei”, e ha affermato che la distruzione della Grecia susciterebbe quella dell’Europa nel suo insieme. A che punto siamo oggi?
Innanzitutto, non sono il solo a dire questo. Si tratta di una formula utilizzata da un gran numero di intellettuali interni alla sinistra, nella quale vi sono divergenze di giudizio molto profonde sulla questione dell’Europa. Verosimilmente, nella situazione attuale queste divergenze si sono aggravate. La questione non si limita al fatto che occorra un’Europa unita, ma ci impone di sapere qual è il rapporto tra la sopravvivenza dell’Europa e la salvezza del popolo greco. Dal canto mio, mantengo una posizione per la quale questa sopravvivenza e questa salvezza non vadano affatto da sé. Penso che l’avvenire della Grecia sia nell’Europa, non un’Europa qualsiasi ma un’Europa che bisogna costruire. O, per dirla in modo più negativo, penso che l’espulsione, l’uscita della Grecia dall’Europa avrebbe delle conseguenze molto gravi per la Grecia stessa. Mi sembra di intendere che questo sia il punto di vista della maggioranza del popolo greco, ma non è necessariamente il punto di vista di tutti i greci. In questo momento la situazione è talmente difficile, e il rapporto con l’Europa è talmente conflittuale, che possiamo capire bene come vi siano persone che pensano il contrario – cioè che le cose andrebbero meglio se la Grecia non fosse più in Europa, anche senza pensare di cercare sostegno a Mosca: il che non rappresenta una condizione indispensabile (Balibar ride).
Mantengo soprattutto, e più che mai, una posizione secondo la quale per sopravvivere – cioè per trasformarsi in modo da poter sopravvivere – l’Europa stessa ha bisogno di risolvere la questione greca in un senso che sia sufficientemente favorevole alle aspirazioni del popolo greco. Quindi non servono certo nuovi diktat che impongano una punizione alla popolazione greca. Siccome questa situazione è attualmente molto tesa, resta evidentemente incerta. Ci sono elementi più favorevoli che nel 2012 – essenzialmente il fatto che i greci hanno eletto un nuovo governo -, ma anche elementi più sfavorevoli: soprattutto, la situazione finanziaria si aggrava e ci sono forze politiche in Europa che giocano a favore del deterioramento di quella stessa situazione. Penso, perciò, che l’Europa corra un grande pericolo.
Lei utilizza il termine gramsciano di « interregno » per parlare dell’attuale fase di transizione. In questa fase chi va più veloce, le forze della distruzione dell’Europa o quelle della sua ricomposizione ?
Anche Zygmunt Bauman – sociologo inglese di origine polacca e notevole personalità della vita intellettuale europea – utilizza il termine gramsciano. Questo termine è legato alla questione della sovranità. «Interregno» indica il periodo tra la morte del sovrano precedente e l’entrata in funzione del nuovo. In molte epoche storiche si è trattato di un momento assai rischioso perchè la sovranità è sospesa.
È quello che Giorgio Agamben chiama “stato di eccezione”. Come diceva Lenin, dal canto suo, è il momento in cui il vecchio potere non può più esercitarsi e il nuovo potere, in gestazione, non accetta più che si governi come prima. Il nuovo è già pronto a dare il cambio al vecchio, anche se i rapporti di forza sono incerti. Secondo Gramsci, è un momento in cui il vecchio ordine si disgrega e non è più vitale, e il nuovo non esiste ancora nemmeno come forza nascente.
Allora – secondo Gramsci – prendono forma molteplici fenomeni di patologia sociale e politica. In questo momento, in Europa, siamo in una situazione nella quale si producono i fenomeni morbosi più svariati perché il vecchio ordine, e in particolare la struttura dell’Unione Europea come era stata costruita a partire dal 1990 – evidentemente non parlo dell’Europa del Trattato di Roma ma di quella di Maastricht -, non funziona più, e dall’altra parte non c’è alcuna forza. Siamo in Grecia e Syriza è una forza. Forse – fino a un certo punto – ci sono altre forze morali, ideologiche, politiche in altri paesi d’Europa. Ma tutto questo non dà forma – almeno non ancora – a un’alternativa politica. Ed è per questa ragione che assistiamo a una patologia che comporta l’ascesa dei nazionalismi e la disperazione morale delle popolazioni, il disgusto per la politica ed altro ancora. In fin dei conti le conseguenze possono essere catastrofiche.
Lei ha lavorato con Immanuel Wallerstein sulle nozioni di « razza » e di « nazione » e attribuisce alla Grecia la qualifica di « nazione storica » necessaria all’Europa. Che senso attribuisce al termine « nazione storica » e come si può evitare che i nazionalismi di ogni genere se ne approprino in modo indesiderato?
Il termine « nazione » è complesso e polisemico. Le nazioni sono formazioni culturali di lunga durata e ciascuna ha la propria storia singolare. Con un altro linguaggio si potrebbe parlare di formazioni ideologiche, ma penso che sia meglio conservare il termine « culturali ». La storia della Grecia comincia da molto lontano, poi c’è l’indipendenza, ecc. Questo non significa che non esistano divisioni. All’interno della stessa cultura ci sono delle divisioni. C’è quindi una formazione culturale e, al suo interno, un conflitto permanente. « Nazione greca » vuole dire anche Stato, lo Stato greco in questo caso. Si pone quindi la questione della sovranità nazionale, della sovranità popolare. È forse la stessa cosa? Io sono un federalista europeo e questo non piace a tutti. Sono sempre più federalista, ma allo stesso tempo esserlo mi sembra sempre più complicato. Bisogna che vi dica di aver preso coscienza di non essere d’accordo con Habermas sul fatto che saremmo entrati in una costellazione post-nazionale, in cui la questione dell’unità politico-nazionale apparterrebbe completamente al passato – ma bisogna riconoscere che su questo punto anche lo stesso Habermas ha cambiato opinione.
È vero che, per un certo periodo, ho pensato che quella della democrazia, quella della sovranità del popolo e quella del livello a cui si colloca il potere politico sono tutte questioni che si pongono sempre meno su scala nazionale e sempre più su scala sovranazionale. Da allora, su questo punto, anch’io ho un po’ modificato la mia posizione. Amo molto il concetto un po’ bizzarro di «demoi-kratie», coniato dalla mia amica Kalypso Nikolaidou. Vuole alludere ad una democrazia al plurale, una democrazia pluralista in cui le nazioni non scompaiano. Kalypso osserva che non serve avere una sede dell’Ue sempre a Bruxelles nel momento in cui, come accade oggi, la presidenza cambia; bisognerebbe piuttosto che l’amministrazione si spostasse da un paese all’altro in modo tale da manifestare simbolicamente e materialmente l’uguaglianza tra le nazioni europee. L’Europa può esistere solo se fa uno sforzo, mentale ed istituzionale al contempo, capace di muovere contro il corso apparentemente naturale delle cose e di stabilire l’uguaglianza tra le nazioni. Evidentemente le nazioni devono cedere qualche cosa della loro sovranità esclusiva, nella misura in cui questa non è oggi altro che un mito sostituito nei fatti da una sovranità condivisa. Dall’altra parte, e in cambio, bisogna però che le nazioni guadagnino qualcosa, per esempio nel senso della solidarietà e dell’uguaglianza.
Parlando di una parte dell’Europa che ne sta trasformando un’altra in post-colonia interna, lei riprende il termine «zonage» di Alain Badiou. Qual è la forma attuale di questo zonage ?
Sul piano politico mi trovo molto spesso in disaccordo con Badiou, perché lui non capisce granché di politica. Anche se è estremamente brillante, dal punto di vista politico vive all’interno di un mondo che non è quello reale. Vive nel « mondo delle idee comuniste ». Esistono altri modi di essere comunisti oltre a quello che consiste nel vivere dentro il mondo delle idee. Però, con Badiou, siamo d’accordo su molte cose, ad esempio sulla necessità di organizzare un movimento di solidarietà con la Grecia che è ora troppo debole, ed è per questo che due anni fa eravamo insieme in un’iniziativa denominata « Salviamo il popolo greco ». Badiou se ne è uscito quindi con questa nozione di «zonage» ed io ho trovato che fosse una buona idea. Ciò che vi è di interessante in questa nozione consiste nella sua capacità di mettere a fuoco il fatto che in questo momento, in Europa, osserviamo fenomeni di dominio e sfruttamento del tutto simili a quelli che si sviluppano altrove nel mondo; fenomeni che hanno molte affinità con il neocolonialismo e che nel mondo di oggi danno vita ad una nuova, scioccante forma di dipendenza coloniale o semi-coloniale. E questo perchè l’idea dell’Europa è che si possono colonizzare, e si sono colonizzati, gli altri, ma non ci si colonizza tra noi.
Su questo punto, però, dobbiamo essere prudenti. Credo che in Grecia molte persone pensino che l’imperialismo tedesco stia tentando di colonizzare la Grecia. Io non la metterei nello stesso modo. Credo che farlo sia ideologicamente molto pericoloso. Anche se penso che la Germania stia dalla parte del dominio e la Grecia dal lato opposto, questo non vale per tutti i Greci: gli armatori greci non stanno dal lato opposto a quello del dominio, e non so da che parte stia la Chiesa greca. Dunque, c’è un rapporto di dominio che comporta aspetti quasi coloniali. E come in tutti i fenomeni quasi coloniali, ci sono zone di prosperità e zone di povertà, zone di costruzione e zone di distruzione. Il tasso di disoccupazione oltre una certa soglia – e non è qualcosa che riguarda solamente la Grecia, ma anche la Spagna, certe regioni della Francia, dell’Italia, ecc. – genera zone di distruzione delle condizioni di vita per un’intera parte della popolazione. La svendita dei servizi pubblici, di certi assets, ecc., sotto forma di privatizzazioni imposte a tariffe ridicole, comporta simultaneamente effetti di distruzione e di spossessamento che hanno dimensioni neocoloniali.
Bisogna anche osservare che la Germania ha un problema demografico ed ha assolutamente bisogno di forze lavoro giovani – se possibile qualificate – che non saranno più turche. Al loro posto ci saranno giovani spagnoli e greci. Sul piano dei principi, trovo una cosa eccellente ed auspicabile che i giovani studenti e i giovani lavoratori circolino tra i paesi europei; è una delle cose che possono costruire l’Europa. Ma se questo si compie nelle forme di un brain drain unilaterale, che muove dalle regioni periferiche verso le regioni centrali, allora ci si trova di fronte ad uno schema di tipo para-coloniale. Questo è il «zonage». Quindi «viva Badiou»! Conserviamo qualcosa del suo pensiero.
Perché non c’è un «effetto Syriza» in Europa?
Perchè le condizioni sono diverse. Mi piacerebbe molto che i greci mi spiegassero come vedono le origini di Syriza e soprattutto il suo potenziale. Questa è la domanda giusta: se Syriza durerà, se vincerà la sua scommessa. Se governerà il paese contro l’ordine dominante delle cose e, di conseguenza, in un modo capace di modificare i rapporti di forza con le strutture di potere esistenti in Europa. Non si può mai dare nulla di scontato in politica. L’esistenza di Syriza è una gran cosa, non solamente per l’Europa, ma non ci troviamo al nastro di partenza, abbiamo le spalle al muro. Per questo le discussioni hanno ora del meraviglioso.
Il governo greco non è semplicemente appeso al fatto di sapere se la Commissione accetterà o no di versare i residui del suo prestito. È appeso anche al fatto di sapere se i borghesi e i capitalisti depositeranno i loro denari nelle banche greche. Dopo le elezioni la popolazione greca ha pensato che gli interessi di classe e gli interessi nazionali fossero convergenti.
Ma c’è un altro aspetto del problema […]. La socialdemocrazia, oggi, in Europa, è un cadavere politico. Non esiste più.
Certo, nei paesi nordici esiste, là è un’altra storia. Hollande è un rappresentante di ciò che chiamo la grande coalizione che dirige oggi l’Europa. La « Grande coalizione » è una categoria tedesca – essa ha una lunga storia nella Germania Federale contemporanea e in questo momento il paese è governato da una coalizione simile -, è un’alleanza tra i social-democratici e i conservatori. Più in generale, al livello delle forze politiche, è l’Europa che viene diretta da una grande coalizione di questo stesso tipo.
C’è poi il problema dell’emergenza della destra e dell’estrema destra. Voi avete Alba dorata e ANEL. In Francia abbiamo il Front National. Non è la stessa cosa, ma poi ci sono anche i neofascisti in Italia. Ci si rivolge un po’ ovunque verso un populismo di estrema destra.
Nel 2010 lei ha lasciato intendere che « l'Europa, come progetto politico, è morta » e ha evocato la necessità di un « populismo europeo» (The Guardian, 25-5-2010). Può tornare su questo concetto alla luce dei negoziati del governo greco con le istituzioni europee?
L’ho fatto perché – l’ho detto molto tempo fa – era un’espressione provocatoria. Un tipo di espressioni di cui c’è bisogno se si vuole risvegliare le persone. Dire che « l'Europa, come progetto politico, è morta » significava anche dire che bisognava renderla urgentemente viva. Dopo avere detto questo ho però apportato alcune correzioni. Il riferimento al «populismo europeo» era una specie di provocazione, una nozione antinomica. Combinava due cose che non stanno molto bene insieme, che si confrontano tra loro. Perché? Perché il «populismo» è caricato di significati molto diversi. E la storia del termine varia molto da un luogo all’altro: per esempio non è la stessa cosa in Europa e in America. Ad esempio, se Obama annuncia la sua volontà di regolamentare il sistema bancario, diventa un populista (o meglio ci saranno persone alla sua sinistra che lo chiamano populista); non è il caso di Chàvez in Venezuela, di Kirchner in Argentina, di Le Pen in Francia. Nell’Europa di oggi, il significato del termine «populismo» a cui facevo riferimento è quello che lo associa al nazionalismo. Ancora, io non metto ogni forma di nazionalismo sullo stesso piano.
Quello che sostengo è che esiste una tensione interna tra l’aspetto democratico da una parte – banalmente, l’idea che le persone comuni, il popolo che si compone principalmente di lavoratori, poveri, ecc., devono avere voce in capitolo nella politica contemporanea – e, l’idea che la sovranità nazionale sia un assoluto, o peggio ancora che abbia qualcosa di puro, del valore supremo del popolo, dall’altra. Si impone dunque una scelta tra un orientamento secondo cui l’aspetto democratico è più importante della dimensione nazionale e un altro in cui, invece, prevale la seconda. Quando oggi in Europa si parla di populismo è questa la posta in gioco. Inoltre, non possiamo parlare di populismo solamente per ciò che riguarda le estremità dello scacchiere politico. Faccio notare che il centro politico è assai populista.
Per tornare alla vostra domanda, quando dico «abbiamo bisogno di un populismo europeo» intendo dire che abbiamo bisogno di uno slancio democratico radicale, opposto all’ufficioso controllo tecnocratico e finanziario del sistema politico, opposto a un federalismo post-democratico gestito dalle classi dirigenti e non dai popoli. Contro questa tendenza, abbiamo bisogno di una forte spinta democratica. Esistono certamente radici nazionali, ma queste dovrebbero essere concepite come strumenti che tendono a democratizzare radicalmente la stessa costruzione europea. Questo significherebbe dar forma ad un «populismo» diverso da ciò che generalmente chiamiamo «populismo». E quando mi sono reso conto che c’era un’ambiguità nelle mie parole, ho tentato di correggermi dicendo che questa diversa forma di populismo non sarebbe tanto un populismo quanto un «contro-populismo». Non so come dirlo in greco, dal momento che il termine «anti-populismo» suggerisce che il populismo sia negativo, mentre il «contro-populismo» è un’alternativa al populismo. Ma che lo si chiami «populismo» o «contro-populismo» europeo alla fine significa più democrazia, più partecipazione popolare nei dibattiti politici in Europa. E questo significa più cittadinanza, una cittadinanza sempre più attiva.
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