Ue e società civile
Europa e il sì alla riforma, Corvo (Bicocca): «Obsoleta la divisione tra profit e non profit»
Dopo il via libera di Bruxelles, si apre un nuovo capitolo per gli enti del Terzo settore. Luigi Corvo, docente di Economia aziendale: «La dicotomia tra commerciale e non commerciale è superata ed è il frutto di una logica quasi poliziesca verso gli enti di Terzo settore»

L’ok dell’Europa alle nuove misure fiscali introdotte dalla Riforma del Terzo settore «è importante», ma «la suddivisione rigida, manichea fra commerciale e non commerciale è un problema culturale», dice Luigi Corvo, professore associato di Economia aziendale all’Università Bicocca di Milano e ceo di Open Impact. «C’è bisogno di sapersi muovere in uno spazio che va, da un lato, dall’apprezzamento dell’avvenuta legittimazione della utilità sociale e intergenerazionale del risultato economico conseguito dagli enti del Terzo settore – Ets, dall’altro occorre studiare i numeri nella loro materialità per cogliere se ci sono effetti rilevanti sul futuro di queste organizzazioni».
Corvo, cosa rappresenta il via libera dall’Europa alle nuove misure fiscali introdotte dalla Riforma del Terzo settore?
Sicuramente l’ok di Bruxelles è importante. E il fatto che ci sia la presa di consapevolezza che la voce “utile”, quando riferita agli Ets, ha una connotazione diversa rispetto alla voce “utile” delle aziende profit, è un punto favorevole. Questa è la premessa. La domanda a cui dovremmo rispondere, a mio avviso, è: «È utile a chi?». Mentre per l’azienda profit è utile agli azionisti, perché c’è possibilità di distribuzione di dividendi, quando parliamo di Ets è utile fuori ed è utile dopo. Questa è la questione dirimente. È utile fuori perché se un Ets fa un risultato di un esercizio positivo, rafforza la sua capacità di generare un impatto sociale, quindi è utile per i destinatari. Inoltre, destinando l’utile al patrimonio, dovendolo mettere a riserva, si consegna al dopo, alle prossime generazioni, un ente del Terzo settore più forte, più solido, più stabile.
Quindi c’è un doppio livello di utilità.
Esatto, C’è un’utilità fra quello che avviene dentro l’ente e i beneficiari che stanno attorno all’ente, alla comunità. Poi c’è un’utilità intergenerazionale: è questo che segna la differenza. Il fatto che finalmente abbiamo il via libera dell’Europa è una cosa positiva.
Entriamo nel concreto di questo via libera dell’Europa.
Innanzitutto, c’è ancora questa divisione molto formale e giuridica tra attività commerciale e non commerciale. Io sarei per il cambiamento dell’impostazione dicotomica che, secondo me, è obsoleta ed è il frutto di una logica quasi poliziesca verso il Terzo settore. Un Ets, se fa attività commerciali destinate al rafforzamento della sua condizione di equilibrio economico (e l’equilibrio economico consente di far durare nel tempo l’impatto sociale generato, cioè di renderlo stabile, sostenibile, quindi è una garanzia che l’impatto non è temporaneo ma può continuare a generarlo), allora le attività commerciali sono funzionali all’attività istituzionale. E quando sono funzionali alle attività istituzionali, dovrebbe essere previsto ed addirittura apprezzato che ci sia una capacità di attrazione, di ricavo per generare impatto. Più che la divisione tra attività commerciali e non commerciali, il tema dovrebbe essere un altro.
Quale?
Se c’è una strumentalità delle attività commerciali per le attività di impatto sociale. C’è un’impostazione culturale della norma che è sbagliata, continua a vivere di patologie e sospetti. La patologia è che ci sono sempre persone che imbrogliano. Il sospetto è: come devo fare per stanare l’imbroglio? Seguendo la patologia, di fatto si mettono delle classificazioni rigide che non tengono conto del purpose, dello scopo.

In tanti discorsi collegati all’evoluzione degli Ets, si afferma che devono emanciparsi sempre di più dalla dipendenza dalle risorse pubbliche. Ma se, da un lato, si emancipano dalle risorse pubbliche, dall’altro c’è questo stigma delle attività commerciali (senza tener conto della funzione e dell’uso che si fa delle risorse incamerate con le attività commerciali), ma come si devono sostenere? Tra l’altro, con un elemento di disparità territoriale.
Ci spieghi meglio.
Laddove c’è presenza di fondazioni di origini bancarie, ci sono maggiori opportunità, laddove non c’è quella presenza, ce ne sono minori. Se un Ets, in un territorio senza fondazioni di origini bancarie, deve dare vita ad attività commerciali per sostenere le attività di impatto sociale, perché deve essere penalizzato? Ha una doppia penalizzazione. Da un lato, non ha accesso a risorse di fondazioni che erogano tanta quantità di risorse che consentono anche di parlare di secondo welfare in alcuni contesti del Paese, mentre in altri contesti rischia di sparire il primo di welfare. La suddivisione rigida, manichea fra commerciale e non commerciale è un problema culturale. Come dicevo, tra patologia e sospetto. Poi c’è il fattore 6% della Riforma del Terzo settore.
C’è bisogno di sapersi muovere in uno spazio che va, da un lato, dall’apprezzamento dell’avvenuta legittimazione della utilità sociale e intergenerazionale del risultato economico conseguito da un Ets, dall’altro occorre studiare i numeri nella loro materialità per cogliere se ci sono effetti rilevanti sul futuro di queste organizzazioni
Cosa vuole dirci, sulla quota del 6%?
La fiscalizzazione agli Ets avviene su una quota di utile pari al 6% del fatturato e non trovo comprensibile questa soglia perché, se si sancisce che l’utile del Terzo settore ha una funzione diversa, perché questa vale solo fino a 6%? Altro punto: il Registro nazionale Terzo settore – Runts.
Cosa pensa, a proposito del Runts?
Con l’istituzione del Runts abbiamo chiesto agli Ets di caricare il bilancio e il bilancio sociale, a seconda delle diverse forme di rendicontazione che le varie tipologie di enti devono elaborare, ma ad oggi non è possibile ancora fare analisi aggregate di bilanci degli Ets. Quindi, non sappiamo quanta parte degli enti produce utili, quanta parte di essi produce utili sopra il 6%. Quindi, l’impatto sulla finanza pubblica di questa defiscalizzazione, mi chiedo come l’hanno calcolato. Il rischio è un po’ la montagna che produce il topolino. Ad oggi tutti i dati degli enti che sono iscritti al Runts e che caricano il bilancio, non sono consolidati. Non c’è, come avviene per le imprese da parte per esempio di Infocamere, un’analisi aggregata. Non sappiamo qual è il volume dei ricavi, o del valore della produzione, di tutti gli Ets iscritti al Runts.
Non si sa qual è il livello di valore aggiunto da conto economico di tutti gli enti che caricano i loro bilanci nel Runts, qual è il loro livello di risultato prima delle imposte, e quindi, qual è il rapporto medio fra risultato prima delle imposte e fatturato per capire quanti stanno dentro il 6% e che consistenza ha questa percentuale in termini effettivi. L’ultima analisi che è stata fatta a riguardo era solo sulle cooperative sociali (consiglio il saggio di Gianfranco Marocchi Le dimensioni della cooperazione sociale: numeri, evoluzioni e articolazioni del fenomeno) perché hanno l’obbligo di presentazione del bilancio al Registro delle imprese, su di loro si può fare quella analisi aggregata come per le Srl. Il livello medio (con tante differenze all’interno) tra utile e fatturato è lo 0,65%. Il punto non è tanto che gli defiscalizziamo l’utile.
Qual è il punto?
Che l’utile per gli Ets spesso non c’è, mutando di fatto il vincolo alla non distribuzione del profitto in impedimento alla generazione di valore aggiunto e di utile. Se, come dicevo, gli Ets realizzano ricavi attraverso attività commerciali, sono guardati “in cagnesco”. E il valore della produzione generata in risposta alle attività di interesse generale definite dal Codice vengono pagate al valore di costo, non al valore. In sostanza, dunque, quello che avviene è un sostanziale pareggio fra ricavi della produzione e costo della produzione senza la possibilità di creare uno spazio di valore aggiunto funzionale a sostenere investimenti.

C’è bisogno di sapersi muovere in uno spazio che va, da un lato, dall’apprezzamento dell’avvenuta legittimazione della utilità sociale e intergenerazionale del risultato economico conseguito da un Ets, dall’altro occorre studiare i numeri nella loro materialità per cogliere se ci sono effetti rilevanti sul futuro di queste organizzazioni. Il punto è il modello di sostenibilità del Terzo settore dentro la “tenaglia” di impossibilità sul fronte cosiddetto “commerciale” (che è un’espressione, secondo me, sbagliata), da un lato, e di remunerazione al costo (invece che al valore) su tutto ciò che riguarda il perseguimento dei fini istituzionali.
Ci spieghi meglio.
Se è vero che l’utile degli ultimi dati, in media, degli Ets è lo 0,65% e se è vero che non riusciamo a fare delle analisi aggregate per via di quella illeggibilità dei dati del Runts, un soggetto che investe in un Ets che non ha marginalità, come si ripaga l’investimento? Lasciamo perdere se con il titolo di solidarietà il ritorno è più basso. Sarà più basso, ma la quota capitale va restituita e un ritorno va corrisposto. Se un istituto finanzia ad un ente del Terzo settore 100mila euro, deve essere in grado di restituire in un piano di ammortamento quella cifra di quota capitale, più un interesse del 2-3%. Sulla base di quali razionali di sostenibilità economica questi sconti sui tassi di interesse come vengono ripagati dagli Ets? Questo è il punto.
Il dibattito giuridico è interessante in termini di riconoscimento e legittimazione. Ma quando entriamo dentro la materialità dei numeri, ci rendiamo conto che il problema è che non c’è il modello di business (sociale) sottostante per abilitare la domanda di queste risorse finanziarie, se non cambiano alcuni passaggi strutturali di come è costruita la struttura del modello di business degli Ets.
Se pensiamo alla norma sul social bonus anche lì si rivela la patologia e il sospetto, perché se un Ets lavora su un bene del patrimonio pubblico e lo ristruttura, ha diritto al 65% di defiscalizzazione, a patto che lì dentro non ci faccia attività commerciali. Ma poi come le sostiene le sue attività? Se le fa un soggetto profit dividendosi gli utili, va bene. Se lo fa un soggetto perché deve alimentare la sua sostenibilità al fine di generare un impatto sociale, non va bene. Non capirò mai questa impostazione riduzionista verso il Terzo settore.
La foto in apertura è tratta dal sito della Commissione europea/Mauro Bottaro
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