Politica

Eurofondi & Italsprechi, il caso Pac

Sul nuovo numero (da oggi in edicola) Vita racconta come la somma delle burocrazie di Bruxelles e Roma ci fa buttare via miliardi di euro destinati al welfare. Con il caso limite del piano Pac-Piano di Azione per la Coesione targato governo Monti

di Gabriella Meroni

Che in Italia ci sia un disperato bisogno di strutture per anziani non autosufficienti e di asili nido, soprattutto al Sud, è cosa nota. Che i servizi pubblici, soprattutto al Sud, siano merce rara, e che i fondi non bastino mai, è cosa altrettanto nota. Che le poche realtà del privato sociale lottino come leoni contro tagli, inefficienze e ritardi, soprattutto al Sud, è cosa ugualmente nota. Meno noto invece è che da sette anni l'Europa vorrebbe darci 730 milioni di euro proprio per creare nuove residenze per anziani e asili nido al Sud, ma l'Italia non riesce a prenderseli. Non sa come spenderli, non presenta progetti validi, prende tempo, si gingilla e nonostante il disperato bisogno rimanga, alla mano di Bruxelles che porge una montagna di quattrini balbettando risponde “Forse dopo, grazie”.

È questa la sconcertante vicenda che riguarda una piccola ma significativa tranche dei Fondi strutturali europei diretti all'Italia e relativi all'obiettivo Convergenza, quello cioè che riguarda Sicilia, Calabria, Puglia e Campania. Programmati per il periodo 2007-2013, nel 2011 il nostro paese si accorge improvvisamente di non aver mosso un dito per spenderli, e in tutta fretta si inventa (al governo c'erano i tecnici di Mario Monti) il Pac-Piano di Azione per la Coesione, progetto di “riprogrammazione” dei fondi che mira spendere il disponibile, per evitare che le risorse comunitarie vengano sprecate o addirittura, in caso di mancato raggiungimento degli obiettivi, revocate.
 

La copertina del nuovo numero di Vita

La prima fase è partita a dicembre 2011 e ha riguardato 6,4 miliardi di euro destinati a istruzione, ferrovie, agenda digitale e credito d’imposta per lavoratori svantaggiati; la seconda, che ha preso il via a maggio 2012, deve spendere in tutto 2,9 miliardi e ha tra gli obiettivi proprio i “servizi di cura” a favore di prima infanzia e anziani non autosufficienti nelle quattro regioni Convergenza, per cui sono a disposizione 730 milioni (400 destinati all'infanzia e 330 agli anziani). Ebbene, a oggi di questi 730 milioni solo poco più di 10 sono stati effettivamente approvati e destinati, gli altri sono ancora in un limbo indefinito fatto di disorganizzazione, ritardi, inefficienze e annaspamenti vari.

Per la prima volta, infatti, a dover presentare i progetti non sono singole regioni o comuni, e neppure associazioni o fondazioni, ma i cosiddetti “ambiti”, 200 aggregazioni di comuni volute dall'allora ministro Barca e disegnate col compasso sul territorio per raggiungere una media di circa 100mila abitanti. Sono dunque questi ambiti, costituiti spesso da amministrazioni che non hanno mai lavorato insieme, che devono presentare i progetti, e non al ministero per la Coesione territoriale – competente sui fondi europei – ma al ministero dell'Interno, presso il quale si è costituita una speciale struttura con a capo il prefetto Silvana Riccio, che spiega: «Dei 730 milioni a disposizione ne abbiamo ripartita una prima tranche, pari a 250 milioni, con un metodo sperimentale sia per quanto riguarda gli ambiti, sia per quanto riguarda il metodo: non facciamo bandi, scegliendo i progetti migliori, e non necessariamente puntiamo alla creazione di nuove strutture ma finanziamo anche la gestione e manutenzione di strutture esistenti».

Quindi, come spiega il prefetto, non è detto che con i soldi europei nascano nuovi asili o nuove residenze per anziani, ma semplicemente che si tenga in piedi il poco che c'è; eppure dei 250 milioni (su 730) ripartiti ne sono stati effettivamente spesi appunto solo 10, perché lo scorso febbraio il ministero ha ritenuto validi solo 12 dei 404 progetti presentati dagli ambiti, mentre gli altri sono stati rimandati al mittente perché necessitavano di “integrazione documentale”. In pratica, non erano completi. Ora i progetti approvati sono diventati 22, gli ambiti hanno tempo fino a maggio per correggere i plichi, e intanto il tempo passa.

Ma che è successo? Le procedure europee sono impossibili? I comuni non sanno leggere le istruzioni? O hanno altro a cui pensare? «È la prima volta che i Comuni devono fare programmazione integrata in forma associata tra loro», risponde la dottoressa Riccio, «e poi si tratta di fondi aggiuntivi regolati diversamente, per esempio per gli asili nido non è più il singolo comune che decide, ma più comuni insieme. Poi in queste regioni la normativa sui soggetti accreditati non è sempre aggiornata… insomma sono difficoltà iniziali». Iniziali forse no, considerato che i fondi europei sono del 2007 e la riprogrammazione Pac ha quasi due anni, ma difficoltà di sicuro, visto che ad aiutare i comuni disorientati sono scese in campo perfino le prefetture e riunioni periodiche si svolgono anche a Roma dove i tecnici degli Interni si trasformano in tutor di assessori e segretari comunali in affanno.  E se a maggio le sospirate integrazioni non saranno sul tavolo del prefetto? «Il Pac finisce nel 2016», risponde con calma la dottoressa Riccio. Quindi cari comuni (e cari cittadini del Sud che aspettate servizi essenziali), tranquilli che c'è tempo.

«Faccio fatica a commentare una situazione così scandalosa», si indigna Carlo Borgomeo, presidente di Fondazione con il Sud. «Ma come? Il governo si danna l'anima per tagliare 6 milioni di qua e 5 di là, qui di milioni ce ne sono più di 700 pronti da spendere, per regioni in cui i bisogni sono enormi, e ci si permette di aspettare due anni senza fare niente? Io non so cosa è andato storto, ma sa che c'è? Non lo voglio neanche sapere. Ciascuno degli attori in campo può accampare mille motivi per giustificare questa inerzia, non dubito della buona fede di nessuno ma i risultati sono questi e parlano da soli». Secondo il presidente, oltretutto, ci sarebbe anche una via d'uscita da questo guazzabuglio burocratico: «Primo, si trova un diverso meccanismo di erogazione, prendendo atto del fallimento di queste entità improbabili chiamate ambiti, e in secondo luogo ci si ricorda che in Italia esiste il terzo settore, che è fatto di gente capace di fare progetti per rispondere a un bando, spendere risorse e rendicontare. Noi come Fondazione lo vediamo tutti i giorni. E invece siamo ancora all'autoreferenzialità della Pubblica amministrazione, altro che sussidiarietà. E già tremo al pensiero di cosa accadrà ai prossimi fondi strutturali 2014-2020…».

Già, il terzo settore. Tanto invocato quando di fondi non ce ne sono, tanto ignorato quando il piatto è ricco. «Avevamo grandi aspettative per questo intervento», conferma Pietro Barbieri, portavoce del Forum del terzo settore, «invece rileviamo che una così grande differenza tra quanto disponibile e quanto realmente, a oggi, impegnato costituisce l’ennesima occasione mancata. Nonostante l'apprezzabile impegno di molti, è evidente che il meccanismo non ha funzionato. Il nostro auspicio è che le azioni in atto per ampliare la platea di interventi finanziati possano essere efficaci e che questa desolante situazione possa essere, almeno in parte, recuperata».  

Questa l'anteprima dell'ampio servizio a cura di Stefano Arduini e Gabriella Meroni che fa parte dell'inchiesta cui è dedicato il nuovo numero di Vita (da domani in edicola). Un servizio per capire chi comanda davvero a Bruxelles. I 751 parlamentari che verranno eletti o i 15mila lobbisti che presidiano gli interessi della grande industria? “Euro Babylon” (il titolo della copertina) è il viaggio che prova a dare una risposta, anche attraverso un reportage di Christian Benna, inviato a Bruxelles, dentro i palazzi che contano in Europa.


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