La grande crisi finanziaria sta producendo un terremoto del modello del welfare europeo. Il timone è in mano a banchieri e ministri dell’Economia. L’unica logica è quella dei tagli. Andrea Simoncini, docente e attento osservatore di cose europee, lancia la polemica. Intervista
«Si sta sottovalutando l’impatto della crisi finanziaria globale sulle politiche interne dell’Unione europea e in particolare sulle politiche sociali». Quello di Andrea Simoncini, docente di Diritto costituzionale a Firenze, è un monito esplicito: «Il caso Grecia ha reso evidente che per controllare i deficit, che sono il buco nero che crea la crisi finanziaria, si taglia la spesa sociale».
Vita: Quali sono le conseguenze?
Andrea Simoncini: Abbiamo sempre vantato un modello europeo diverso da quello americano se non nel welfare quanto meno del well-being, lo star bene. Ho però l’impressione che ci troviamo a un turning point che apre domande molto importanti.
Vita: Per esempio?
Simoncini: Che grado di legittimazione ha l’Ue per decidere sulle politiche sociali? L’Unione, nata sul mercato, si è allargata ad altri temi come l’ambiente e tanti altri settori trainanti, però nella sua Carta fondamentale e nei trattali le politiche sociali non ci sono. Mi spaventa un’Europa che comincia ad occuparsi di un tema delicato come la società sotto la pressione della crisi e soprattutto senza chiari ideali.
Vita: I tagli possono essere in mille direzioni…
Simoncini: Il timore che l’unico ideale sia quello del taglio. Questa svolta non è necessariamente negativa. Ma ho l’impressione che ora l’Europa debba seriamente ripensare il ruolo dello Stato e della società. Una strada può essere il modello americano. Va però ricordato che Obama sta facendo di tutto fuorché tagliare. Con il sistema sanitario, sta imitando il modello europeo.
Vita: Gli Usa copiano gli europei che a loro volta imitano gli americani…
Simoncini: Per uscire dalla crisi assumiamo un modello americano che si è già dimostrato perdente. È il momento di interrogarsi su ipotesi come la sussidiarietà, di chiedersi qual è la vitalità della società nel rispondere ai propri bisogni in modo che lo Stato possa fare un passo indietro non semplicemente tagliando ma valorizzando quello che c’è. Secondo me bisogna rivendicare l’originalità della tradizione sociale di alcuni Paesi europei.
Vita: Le condizioni dei Paesi europei non sono troppo eterogenee?
Simoncini: Non penso che un orizzonte sociale nuovo possa fondarsi unicamente sulla ripresa di principi profondamente radicati nella tradizione europea. Ci troviamo comunque di fronte a una emergenza e si dovrà intervenire sul piano legislativo e rendere più omogenea la disciplina sociale. Non si può pensare a un mercato comune anche del lavoro, per esempio, con trattamenti pensionistici così differenziati. Anche lì però c’è modo e modo di farlo. In questo momento la politica sociale europea viene fatta dai ministri delle Finanze e dalla Bce. Non va bene che i ministri degli Affari sociali, o quelli del Lavoro, o i primi ministri non siano coinvolti…
Vita: Come siamo giunti a questa situazione?
Simoncini: Dopo anni di devozione alla tecnocrazia di Bruxelles, chiedo: «Ma li controllavano i conti? E chi ogni anno ha verificato i bilanci greci, non risponde?». In realtà si sapeva perfettamente che erano truccati. Comunque non è la tecnocrazia che ci salverà: lo dimostra anche questo momento. Bisognerebbe che l’Europa tirasse fuori la sua originalità.
Vita: In che consiste?
Simoncini: Sta in quella capacità di declinare l’universale e il concreto, il bene comune e il bene particolare. Una capacità che una certa tradizione europea ha portato avanti. Del resto, o pensiamo che per fronteggiare questa crisi basti una grande manovra finanziaria o pensiamo che questa crisi abbia una radice un po’ più profonda. In discussione è il modello di sviluppo che abbiamo sposato. E allora non basta tagliare. Dopo che hai fatto sposare a tutti la logica del consumo, che hai detto che il problema non è il valore del lavoro ma del consumo, che hai convinto tutti che la ricchezza non si produce con il lavoro, come fai a convincere a non andare in pensione a 55 anni ma a 65?
Vita: Ma ad esempio c’era la Direttiva europea che ha riconosciuto un ruolo strategico all’impresa sociale….
Simoncini: È vero che ci sono stati segnali importanti: oltre a questa direttiva, una maggiore attenzione alla coesione sociale, certe politiche sulla famiglia sia pur indirette. È vero però che c’è un andamento non lineare, quasi schizofrenico. Proprio perché manca una direzione condivisa. In questo momento, il timone l’hanno preso economisti e finanzieri. Guidando loro.
Vita: C’è la possibilità che le società civili contrastino questa tendenza?
Simoncini: È la grande questione. Il principio di sussidiarietà è un principio di secondo livello: le istituzioni pubbliche non devono fare quello che fa la società civile. Ma questo presuppone che la società civile ci sia e sia vitale. Fondamentale comunque che non venga meno il principio della responsabilità. Di fronte a un bisogno, il primo valore che è interpellato è la mia responsabilità, non la responsabilità dello Stato. Il punto è: quali culture sostengono e sviluppano questa idea di responsabilità e quali alimentano e sviluppano la pretesa individuale? Sono due visioni differenti: da un lato la relazione sociale è vista come benedizione, dall’altra come una maledizione. Di qui nascono idee di responsabilità diverse.
Vita: Quali aiutano la responsabilità?
Simoncini: Sicuramente la radice giudaico-cristiana – per usare la vecchia terminologia – è una parte importante ma non l’unica. Ci sono tante altre culture non necessariamente di matrice religiosa. Il senso civico alla Tocqueville. Sarebbe importante che emergano in questo momento. Senza questa vitalità siamo lì in ginocchio di fronte a un finanziere che ci salvi.
Vita: Cè silenzio dai ministri sociali…
Simoncini: Non solo Sacconi: tacciono anche tutti i suoi colleghi. Eppure il Libro bianco sostiene un’altra idea di sviluppo. Se le politiche sociali sono viste solo come politiche di spesa, di redistribuzione, ora i relativi ministri devono stare sottotraccia. Penso però che ci sia un modo differente di concepire le politiche sociali: non sono una spesa ma l’attivazione di una risorsa.
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