Non profit

Etica e business? Sì, però…

Ci sarà un vero cambio di strategia aziendale colla corporate social responsability o sarà l'ennesima bufala?Leggete l'articolo che segue e potrete farvene un'idea...

di Francesco Maggio

Corporate social responsability: una bufala o un nuovo corso nella vita d?impresa? L?ennesima trovata di abili uomini di marketing o una vera e propria strategia aziendale? Una moda come tante altre o una cultura imprenditoriale che va radicandosi? Alla vigilia della tappa italiana della maratona europea sulla responsabilità sociale (il 10 febbraio a Milano, in Assolombarda) porsi domande simili è d?obbligo per cercare di comprendere un fenomeno sul quale, peraltro (come leggete nelle pagine seguenti), si sono accesi anche i riflettori del nostro governo. Che alle imprese i consumatori oggi chiedano una sorta di ?valore aggiunto etico? è un dato ormai acclarato. Ha scritto in proposito un osservatore attento come Giampaolo Fabris: «Comincia a diffondersi la consapevolezza presso un segmento ancora minoritario della popolazione, ma che non ha più le caratteristiche della nicchia, che acquisto e consumo non esauriscono i rapporti con la marca ma rappresentano due momenti di un processo ben più ampio e complesso». «Il consumatore», aggiunge Fabris, «comincia a prendere atto che le sue scelte possono influire sulla qualità della vita, sovente sull?esistenza stessa di molti altri soggetti. Le nuove responsabilità, quindi, che ci si attende che la marca soddisfi si estendono all?intero operato dell?impresa cui si chiede una sostanziale coerenza globale dei suoi comportamenti». Una tesi che trova conferma eloquente in un?indagine di Sda Bocconi e Reputation Institute, secondo la quale negli ultimi 12 mesi oltre 13 milioni di italiani (il 21% della popolazione nazionale) hanno boicottato almeno una volta un?azienda accusata di tenere comportamenti poco responsabili verso la società, mentre il 13% ha incoraggiato altre persone a farlo (il 4% ha poi firmato petizioni e il 2% partecipato a marce contro l?azienda). Altrettanto vero è che queste istanze vengono oggi accolte anche ai piani alti delle società di consulenza aziendale: «La dimensione sociale dell?azienda», spiega Giovanni Cagnoli di Bain & Company, «è alla base delle relazioni con gli stakeholders e nel lungo periodo è uno strumento di massimizzazione del valore per gli shareholders». «Chi crede alla capacità dell?uomo di trovare equilibrio», prosegue Cagnoli, «non può che concludere che le imprese che meglio interpreteranno queste nuove istanze di ?capitalismo etico? saranno nel lungo termine le migliori, anche sugli ormai vecchi parametri del capitalismo rampante». Sulla stessa lunghezza d?onda si pone un altro ?guru? della consulenza strategica, Michael Porter (autore de Il vantaggio competitivo delle nazioni), che afferma: «Risulta sempre più chiaro che affrontare problemi sociali e strategie d?impresa come se fossero separati e distinti è stato malaccorto in passato e lo è tanto più oggi. Ciò può anche far sì che i manager trascurino vantaggi competitivi potenziali». Tuttavia, a fronte di questo diffuso interesse per la Csr, assistiamo a preoccupanti segnali in controtendenza. Per esempio, come giudicare la decisione della Nestlé, già diffidata per non aver rispettato il codice dell?Organizzazione mondiale della sanità e dell?Unicef sulla commercializzazione del latte in polvere, di chiedere, per l?esproprio di uno stabilimento, un risarcimento di 6 milioni di dollari all?Etiopia, un Paese dove 11 milioni di abitanti soffrono la fame (e poco importa che la multinazionale svizzera si sia affrettata a dichiarare che avrebbe dato il rimborso in beneficenza)? «È come se un ristoratore chiedesse i soldi a un barbone», ha commentato ironica la direttrice dell?ong Oxfam, Justin Forsyt. Oppure, per rimanere sul suolo natio, che dire dell?ultima rilevazione Censis secondo cui il lavoro nero non emerge al Nord e dilaga al Sud e un?azienda su due ne fa ampio ricorso? Cosa c?è di più immediatamente tangibile in fatto di responsabilità sociale delle imprese che non la volontà delle stesse di mettere in regola i propri collaboratori? E ancora, come rilevava il professor Luciano Gallino qualche tempo fa, come fidarsi di aziende che riempiono i loro siti internet di documenti e dichiarazioni sulla corporate responsability, se poi nella realtà si comportano in tutt?altro modo (come Enron, che sosteneva sul web che i principi ispiratori della sua condotta erano «il rispetto reciproco con le comunità»e i portatori di interesse non toccati dalla sua attività»)? No, c?è qualcosa che non va in questo peana tributato da più parti alla responsabilità sociale d?impresa. Lo stesso Libro verde della Ue che auspica interventi volontari delle aziende, per l?europarlamentare laburista britannico Richard Howitt, non basta. «Il diritto internazionale», sottolinea, «esiste per promuovere e assicurare la protezione della vita umana e dell?ambiente. Non sono certo le imprese a decidere se rispettarlo o meno». Ben venga, quindi, questa tappa della maratona europea sulla Csr. A patto, però, che si sappia che si tratta di una tappa di partenza e non di arrivo.


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