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Esuli in patria. La migrazione silenziosa dei giovani francesi dalla Francia

Più di 4milioni di giovani francesi sarebbero pronti a espatriare, migliaia di ultrasessantacinquenni sognano di farlo. Non è la fuga degli hipster e dei cervelli, né il sogno di latta della Silicon Valley a muoverli, E' la disoccupazione, la frustrazione, sono le esigenze materiali e il senso di sradicamento. Ecco la fotografia di uno Stato chiave degli Stati disgregati d'Europa.

di Marco Dotti

Alla domanda: "Hai già pensato di lasciare la Francia e stabilirti in un Paese straniero, Stati Uniti, Canada o Regno Unito per esempio?" il 43% dei francesi risponde "sì, ci ho pensato".

Non bastasse,

1 francese su 10 ha dichiarato che sta pensando seriamente di lasciare la Francia. Tra i giovani dai 18 ai 25 anni, la percentuale è ancor più disarmante: il 62% pensa alla fuga, mentre salgono a 2 (su 10) quelli con le valigie in mano.

Ce lo spiega il sondaggista Jérôme Fourquet, direttore del "Département Opinion et Stratégies d'Entreprise" dell'Ifop.

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Fourquet ha condotto per la rivista "Atlantico" un'indagine su quella che potrebbe diventare una costante nel "futuro presente" di un'Europa che subirà pressioni radicali tanto sul fronte esterno, quando su quello interno delle sue frontiere.

Non solo i giovani. Il 24% degli ultrasessantacinquenni francesi dichiara di non farcela più e medita di andarsene.

Ma i giovani preoccupano inevitabilmente più degli altri.

Due elementi critici

Il primo elemento critico da osservare è che da qualche settimana l'attualità è tutta orientata verso la questione dell'arrivo di migranti. Le difficoltà dei governi europei nel "gestire" un fenomeno non solo preannunciato, ma previsto da tempo sono evidenti, ma l'empatia e l'emotività riescono per ora a mascherarla quel tanto che basta per andare avanti alla giornata.

Proprio questo "tirare avanti" rispetto a un fenomeno complesso e multipolare ha quale effetto la sottovalutazione e/o la sopravvalutazione di alcuni suoi elementi, valorizzati o denigrati a seconda delle convenienze televisive o elettorali. L'impatto della migrazione esterna sulle reali dinamiche di vita all'interno del Paese e dell'Europa in genere è, tra questi elementi, quello più sottovalutato.

Il secondo elemento critico che se ne ricava è questo: chi non se ne va perché non può e non potrà permetterselo o non sa come e dove andare, vedrà comunque mutare in peggio il proprio stile di vita e il disorientamento si trasformerà – se già non l'ha fatto – in una forte sensazione di sradicamento. Con quali conseguenze è facile intuirlo.

La luce che illumina oggi i fenomeni migratori in entrata rischia suo malgrado, davanti a una classe dirigente che ama più l'inerzia (e l'inettitudine in certi casi) dell'azione, di gettare in un cono d'ombra le "generazioni" che premono per uscire, le loro ragioni, il loro sentirsi sempre più come esuli in patria.

È un problema ulteriore e comune a tutti gli Stati disgregati d'Europa, non nascondiamolcelo. Anche quando ci raccontano di profughi diretti al nord, ricordiamo che Paesi spesso mitizzati come la Finlandia sono al loro quinto anno di recessione!

Questo mostra che, nel complesso gioco della globalizzazione, un Paese d'approdo e di accoglienza può al contempo essere un Paese da cui si fugge.

Se questo vale per la Francia, inevitabilmente vale anche per Paesi che dal 2008 stanno sentendo la crisi in modo ancor più drammatico e radicale.

A dispetto della realtà amara delle cose, europei e i francesi in particolare continuano a essere descritti come "sedentari". Se prendiamo per buone le riflessioni e i dati di cui parliamo, si tratta di un abbaglio. Quasi 4milioni di questi "sedentari" hanno, infatti, i bagagli in mano.

"Si fa un gran parlare di 'fuite des cerveaux' verso Londra o verso la Silicon Valley ma – nota amaramente Fouquet – "si tratta di individui spesso dotati di patrimonio e benestanti".

La fuga dall'Europa è sempre descritta come "fuga del singolo" o fuga fiscale di aziende verso l'ennesimo paradiso in terra.

Il punto da cui si fugge è il punto d'impatto con la vita concreta dei molti e l'impatto sulla microeconomia delle relazioni, del lavoro, delle cose minute di fenomeni macro (migrazioni, svalorizzazione del lavoro, burocratizzazione estrema degli apparati) che, troppi, descrivono come irreversibili finendo alla lunga per renderli davvero tali.

Eserciti post-industriali di riserva

Oggi, più del 23% dei disoccupati francesi sono giovani e subiscono una concorrenza spietata tanto dall'alto – le imprese cercano sempre più studenti "internazionalizzati", formatisi altrove e pronti, all'occorrenza, a ritornarsene in quel benedetto "altrove" – sia, inevitabilmente, dal basso.

Quali saranno gli impatti dei flussi migratori previsti in ingresso da qui al 2050 sulle nostre forme di vita? Ce lo stiamo chiedendo, fuor di patetico e fuor di retorica?

Chi tra i decisori vuole evitare strumentalizzazione e "populismi" (parola chiave che tutto dice, per non dire nulla) farebbe bene a tener conto anche di tutte le evidenze che affiorano, prima che fronte esterno e fronte interno delle migrazioni si saldino e spingano verso una via di non ritorno. Ammesso non la si sia già imboccata, quella via.

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