Essere madri è un mestiere pericoloso

Una testimonianza dall'Holy Spirit Hospital di Makeni, in Sierra Leone, con cui collabora anche Fondazione don Carlo Gnocchi

di Redazione

Margareth ha soli 31 anni ed è una vittima dell’ignoranza. La sua storia, che vogliamo raccontare in queste poche righe, è una delle tante ancora troppo frequenti in Sierra Leone e in altri paesi africani in cui essere madri è, ancora oggi, “un mestiere pericoloso”.

Margareth è arrivata per la prima volta all’Holy Spirit Hospital di Makeni lamentando dolori al petto e fatica a respirare: il Dr Peter, medico internista tedesco, volontario presso l’Holy Spirit e con grande esperienza in ecografia, riscontra subito una grave infezione polmonare, ma rassicura la paziente che il bambino (Margareth è incinta di 4 mesi) sta bene. Viene ammessa in corsia e curata con trattamento antibiotico fino a quando, qualche giorno più tardi, fa rientro a casa, felice di sapere che la sua gravidanza procede bene.
Circa dieci giorni dopo, Sonia e Alice (volontarie di Caritas Italiana che svolgono servizio civile internazionale a Makeni) mi chiamano al telefono dicendo che nella notte Margareth (loro collaboratrice) è stata portata in ospedale in quanto pare che abbia avuto un aborto naturale, ma che ora la stanno portando in sala operatoria. Quando i chirurghi eseguono la laparotomia scoprono l’incredibile: utero e intestini perforati e un bastoncino di legno attorcigliato attorno a quanto resta della placenta. Si scoprirà dopo dai vicini di Margareth che dopo aver avuto l’aborto spontaneo, è stata portata da un traditional doctor… le conseguenze ora sono disastrose, gravissime. Margareth lotta tra la vita e la morte per giorni: si riprende dal primo intervento, ma dopo qualche giorno l’addome è di nuovo gonfio, una nuova infezione, un’altra pericolosa perforazione e un altro intervento chirurgico a cui partecipano anche un chirurgo e un anestesista del team di “Resurge for Africa”, altra associazione partner che assieme alla Fondazione Don Gnocchi supporta le attività mediche dell’Holy Spirit.
Margareth però non si sveglia subito dall’anestesia, i reni non riprendono a funzionare, è in condizioni critiche. I parenti vengono informati e nelle corsie dell’ospedale urla laceranti delle amiche interrompono la quiete della sera. Da qui è un continuo alternarsi di speranze (o di illusioni): i reni riprendono a funzionare, ma Margareth non è ancora del tutto fuori pericolo. Nel pomeriggio i visi si distendono, sembra migliorare e non dover dipendere del tutto dall’ossigeno: la caposala, Anne Marie, per la prima volta sorride, fiduciosa.
Poi il tracollo: i medici vengono svegliati nel cuore della notte più volte, Margareth ha le convulsioni e, dopo altre ore di lotta e di agonia, non ce la fa. La notizia la mattina successiva passa veloce: amici, parenti, colleghi di “Justice and Peace and Human Rights Commission” (organizzazione partner di Caritas Italiana per cui lavorava Margareth) e dell’ospedale si riuniscono all’ingresso in un silenzio, che nel brusio costante dell’accettazione, risulta ancora più assordante.
Le domande sono tante, così come tanta è la rabbia. Possibile che una ragazza così giovane e con un’educazione alle spalle abbia dovuto fare questa fine? Perché si è affidata alle persone sbagliate? Perchè con tutti i fondi che arrivano in Sierra Leone dalla comunità internazionale e malgrado gli sforzi per combattere la mortalità materna e fare formazione alle traditional birth attendants (le volontarie dei villaggi che danno prima assistenza alle donne con problemi legati al parto o durante lo stesso), queste non hanno riconosciuto i propri limiti e riferito Margareth per tempo all’ospedale?
Una tragedia che si poteva evitare, una storia da raccontare perché sia da esempio assieme a quelle delle tante Margareth che restano sconosciute, in quanto per un motivo o per l’altro, non riescono ad ottenere le cure che dovrebbero, nei tempi e nelle modalità giuste.
Secondo i dati del Ministero della Sanità, la mortalità materna è di 857 madri morte ogni 100mila nati vivi (2008): un dato ancora troppo lontano dagli Obiettivi del Millennio del 2015, una statistica allarmante se si pensa al tasso di fertilità, ancora molto alto nei villaggi, dove elementi culturali e tribali, analfabetismo e bassa educazione sono fattori di rischio aggiuntivi per queste donne. Altre organizzazioni da tempo presenti nel Paese, come MSF che opera soprattutto nella zona di Bo, affermano che l’impegno nella formazione delle ostetriche, l’attuale politica di una sanità gratuita per le puerpere e il miglioramento del sistema di riferimento (con dotazione di ambulanze per le emergenze ostetriche) ha portato ad un calo del 60% della mortalità materna (351 madri morte su 100mila nati vivi nella zona di Bo, sempre secondo MSF).
Margareth tuttavia lascia un messaggio a tutti coloro che lavorano in questo settore che oggi non riescono ad accettare il suo destino: non servono culle o incubatrici di ultima generazione se non ci sono ostetriche qualificate né personale che, a livello di villaggio, sappia riconoscere le emergenze legate alla gravidanza e al parto, così come poco possono fare ospedali super attrezzati se mancano dottori competenti e qualificati e se l’arrivo nella struttura sanitaria più vicina è tardivo. Bisogna fare di più a livello di formazione e di educazione, tenendo sempre presente il contesto locale. E’ un percorso lungo e difficile, che spesso è in contrasto con i tempi e le logiche della cooperazione; un dialogo faticoso tra tutti gli attori a tutti i livelli che però deve essere costantemente portato avanti per il bene di queste donne. Margareth, pagando un prezzo altissimo, ce lo chiede.
 


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