Famiglia

Essere adottate, diventare madri. E fare la pace

di Benedetta Verrini

Quando si diventa mamme si fanno i conti con il passato. Si smette di essere figlie, per sempre. E si riconsiderano i gesti delle proprie madri, per la prima volta alla pari. In questo straordinario passaggio esistenziale, molto spesso, ci si perdona di tante cose dette e fatte.

Non riesco a immaginare quanto grande e complesso possa essere questo bilancio quando, nella tua storia, ci sono anche l’esperienza dell’abbandono e poi quella dell’adozione. L’ho chiesto a Maria Forte, che è coordinatrice del Gruppo Adottivi Adulti del Ciai, ed è reduce dal II Meeting italiano che ha raccolto a Firenze da tutta Italia oltre 120 adottivi italiani, dai 18 ai 65 anni.

“Ponti tra passato e presente”, il tema dell’evento, era mirato ad approfondire quello che rappresenta – per decine di migliaia di loro, adottati in Italia o all’estero – mettere mano (o archiviare per sempre) una ricerca delle origini. O condividere con il partner la propria storia adottiva. O anche, a un certo punto, sentire nascere il desiderio di un figlio.

“Questa seconda edizione del Meeting ha dimostrato, ancora una volta, quanto ci sia bisogno di parlare di questi argomenti e quanto gli adottati abbiano bisogno di confrontarsi”, mi racconta Maria, che è stata adottata in India quando aveva 6 anni ed ora è mamma di due bambini di 7 e 4 anni. “E’ stato particolarmente intenso il confronto tra chi è già genitore e chi invece ci sta ancora pensando”, prosegue.

Perché se “sarò una buona madre?” è una domanda universale, che accomuna tutte le donne in attesa di un figlio, “per noi la questione è più complessa”, spiega. “Alla prima visita dal ginecologo, ad esempio. Quando ti chiede se ci sono malattie nella tua famiglia e tu non lo sai. Hai questo spazio vuoto, nella tua storia genetica, che è più di una semplice mancanza di informazioni e che ti lascia in sospensione, si annoda alle ansie tipiche dell’attesa”.

E in quel vuoto nebuloso del passato arriva ancora quella domanda, “sarò in grado di accudire questo figlio?”, perché “anche se non vuoi, anche se razionalmente pensi di avere tutto sotto controllo, ti aspetti moltissimo da te stessa, vuoi che sia tutto perfetto. E se non andrà così – come in fondo è normale perché nulla con un figlio è come te lo aspetti – i sensi di colpa aumentano a dismisura”.

Chiedo a Maria come funziona il rapporto con la mamma adottiva. “Ogni caso è unico, ogni storia va presa al singolare. Ma certo, dalle voci di alcune, non è facile rapportarsi a una mamma che non ha vissuto l’esperienza di una gravidanza. E’ un percorso parallelo dove si riaprono, reciprocamente, ferite profonde. Per le figlie è quella dell’abbandono, per le madri, invece, quella della sterilità”.

“E quando poi stringi quella piccola vita tra le tue braccia e tutto l’amore e la tenerezza ti invadono, il pensiero inevitabilmente torna alla tua storia”, prosegue Maria. “E allora possono accadere due cose. O ti assale il tormento, la rabbia verso qualcuno che si è arreso, che ti ha lasciato nel momento in cui eri più indifesa. Oppure con quel qualcuno, improvvisamente, fai la pace. Perché ti ha dato una seconda possibilità, ha fatto in modo che la tua storia continuasse, che qualcun altro potesse prenderti la mano e portarti dove sei adesso, con tuo figlio tra le braccia”.

 

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