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Esposito: «Coronavirus? Passare subito ad un’economia di guerra»
Per l’economista «ci siamo sentiti ripetere di essere in guerra ad ogni emergenza più o meno grave che ci ha colpito in questi anni. Tanto da averne perso la comprensione del significato. Oggi che siamo davvero in una guerra, seppur non armata. Le ricette economiche non possono ricalcare quelle dei periodi di pace». L’intervista
Siamo in guerra. Quante volte in questi giorni è stata usata la metafora bellica dai leader politici per giustificare le restrizioni alle libertà individuali? La abbiamo sentita ripetere negli anni ad ogni emergenza più o meno grave: guerra al terrorismo, guerra al cambiamento climatico, guerra ai terremoti, guerra alla mafia, guerra alla droga. Ma cosa significa veramente? «Lo slogan è stato così inflazionato che non facciamo più molta attenzione a cosa esso significhi. E con ogni probabilità non lo sanno nemmeno i politici o i loro social media manager. Ma la realtà è che, oggi, la lotta coronavirus è quanto di più simile si possa immaginare ad una guerra», spiega l’economista Marcello Esposito. L'intervista.
In che cosa lei ritiene sia simile ad una guerra la pandemia di coronavirus?
La prima evidente similitudine è nel numero dei morti. Se ancora a fine febbraio (ed erano passati quasi 30 gg dalla quarantena imposta a Wuhan) qualche eminente “scienziato” italiano definiva ancora il coronavirus una specie di raffreddore, la realtà si è rivelata molto diversa da come veniva rappresentata nel salotto buono della Gruber nella memorabile puntata del 24 febbraio in cui Fabio Volo e Vittorio Sgarbi hanno spiegato che il problema del virus era quello della paura. In Italia nel 2017 sono morte 633 mila persone, circa 1.734 al giorno. Con la Covid, ieri (20 marzo) si sono registrati 627 morti. Se si vuole un termine di paragone bellico, nella prima guerra mondiale sono morti mediamente 513 militari al giorno.
Addirittura pensa di poter paragonare quello che accade con un conflitto mondiale?
Sì, pensiamo all’interruzione nelle linee di trasporto, l’azzeramento del turismo o dal coprifuoco a cui sono sottoposte zone sempre più vaste del pianeta. Questa non è una guerra localizzata. Questa è una guerra mondiale e lo è nel senso vero della parola. Perché la pandemia si è diffusa in ogni parte del globo.
Stando alla metafora di una guerra in atto quale sarebbe la linea del fronte?
La linea del fronte non è ai confini, in un deserto o in mezzo al mare. La linea del fronte è nelle case e nelle nostre comunità. E allora dobbiamo riflettere su cosa ciò significhi e sulle conseguenze che avrà sull’economia, sulla struttura sociale e, in ultima istanza, sulle nostre vite.
Insomma una guerra molto diversa da quelle tradizionali…
Non c’è dubbio. A differenza di una guerra, la lotta al virus comporta un distanziamento sociale che, all’interno delle grandi estensioni nazionali, non ha riscontro in tempo di guerra. Bisogna tornare indietro di almeno 300 o 400 anni per trovare guerre che avevano un effetto simile, quando alla rovina delle armi si aggiungevano appunto le conseguenze della peste o del colera. L’effetto sulla popolazione è asimmetrico rispetto a quello di una guerra. Nel senso che la fascia della popolazione più colpita è quella più anziana, mentre in una guerra sarebbe quella più giovane. Perlomeno, se stiamo parlando di morti in battaglia, perché quando la guerra inizia a prolungarsi, le vittime sono poi soprattutto tra la popolazione civile e nelle fasce più deboli. Ma la differenza maggiore è che in una guerra, gli uomini adulti rimangono al lavoro e solo i giovani vengono sottratti al sistema produttivo, sostituiti dalle donne. Nel caso di una pandemia, invece, tutti vengono sottratti al sistema produttivo…
Una guerra più che altro economica. Quali li effetti che produce?
Quello che appare al momento diverso rispetto ad una guerra è l’effetto sui consumi e sui prezzi. Non facciamoci ingannare come gli economisti delle banche centrali e delle istituzioni internazionali dai comportamenti di questi primi giorni del conflitto. Siamo ancora nel periodo che i francesi chiamavano “drole de guerre”. La domanda aggregata infatti si ritrae per effetto del coprifuoco o per il semplice motivo che certe tipologie di esercizi commerciali (bar, cartolerie, ristoranti, aeroporti,….) vengono chiusi. L’offerta aggregata invece rimane invariata perché il mito del “just-in-time” è appunto un mito. In tutti i settori, tranne forse in quelli digitali a costo marginale zero, prima si produce per creare una scorta di prodotti da mettere in magazzino e poi si attinge dal magazzino per vendere ai clienti. Quanti mesi di consumo sono stoccati in magazzino? Possiamo immaginare, stando abbondanti, una “stagione”, cioè un periodo variabile tra il mese e i tre mesi a seconda della tipologia di prodotti.
Questo ritrarsi della domanda e il rimanere invariato dell’offerta che ripercussioni produce sul lungo periodo?
In questa fase iniziale l’effetto sui prezzi è quello che stiamo osservando: una riduzione. In termini tecnici, i nostri banchieri centrali direbbero una “deflazione”. Il problema è quando le scorte accumulate si sono esaurite. Se volete comprare un’automobile, qualcuno la dovrà produrre. E il prezzo che dovrete pagare sarà proporzionale al costo che l’azienda dovrà sostenere nel “nuovo” mondo disegnato dall’epidemia.
Significa che il costo sarà più alto rispetto ad oggi?
Personalmente non ho molti dubbi. I lavoratori sono in larga parte impegnati sul fronte “interno” e comunque devono essere protetti. Lo stesso vale per i trasportatori. La catena dei fornitori che spaziava su tutto il globo è semi-bloccata. Al lettore, tirare le somme.
Fin qui abbiamo ragionato sul breve o medio termine. Sul lungo periodo invece come cambia lo scenario?
Il disequilibrio tra domanda e offerta sarà peggiorato dalle misure di iper-espansione monetaria e fiscale che i governi stanno approntando. I pezzi di carta che vengono stampati adesso hanno un valore psicologico. Servono per confortare chi sta combattendo la battaglia in queste prime fasi iniziali della guerra. Ma quando bisognerà spenderli e non c’è nessuno che sta producendo le merci che si vogliono acquistare allora si inizierà a capire che un’economia di guerra non è compatibile con il mantenimento degli stili di consumo di pace.
Sta dicendo che dovremmo varare un regime economico ad hoc?
Chiunque abbia memoria storica sa che In guerra non si interviene per sostenere i vecchi stili di consumo. In una economia di guerra è fondamentale che gli stili di consumo cambino. La decisione di Trump di spedire denaro contante a casa di ogni americano sarà sicuramente vincente da un punto di vista elettorale se la guerra dura pochissime settimane. Ma cosa succederà se la guerra si protrae qualche mese? Chi produce i beni di consumo che con quei soldi verranno acquistati? Da questo punto di vista, è incredibile la leggerezza con cui nel mondo Occidentale le banche centrali e i governi stiano affrontando il problema. Sono concentrati sul “quanto” e non sul “come”. Irretiti dalla paura che la popolazione possa scoprire che gli stili di vita e di consumo dovranno cambiare radicalmente se la “blitzkrieg” si trasforma in una guerra lunga molto più di qualche settimana o semplicemente e beatamente inconsapevoli. Bruciare centinaia di miliardi di euro per tenere in piedi una economia di pace durante un periodo di guerra non può che finire in un modo: inflazione di tipo sudamericano o razionamento. E i segnali (scaffali vuoti, assalto ai supermercati, …) lasciano capire che forse tra le due alternative il razionamento potrebbe essere la migliore. In guerra succede così, soprattutto se vuoi vincerla.
Sta quindi suggerendo che dovremmo davvero varare un’economia di guerra?
Penso che più che spingere sui consumi e sul cristallizzare la struttura produttiva sui bisogni del “prima”, sarebbe meglio riflettere su quale sia la guerra che si vuole combattere, su quanto durerà e su come vincerla. E per farlo ci sarebbe bisogno della stessa creatività e intelligenza delle società occidentali prima della Seconda guerra mondiale. Adesso abbiamo un vantaggio enorme: le tecnologie digitali. Queste tecnologie ci consentirebbero di gestire il distanziamento sociale e rappresentano comunque il futuro. Purtroppo, abbiamo la sfortuna di avere al potere la classe dirigente che ha distrutto la potenza aziendale, culturale e scientifica dell’Occidente. Al lettore giudicare se avremo tempo di sostituire la classe dirigente in tempo e, soprattutto, se ne emergerà una nuova che non sia costituita da comici, nani e ballerine e soprattutto che non abiti in quella specie di Disneyland per adulti che è Bruxelles-Strasburgo.
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