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Esg o Csr? Ok la sostenibilità è giusta

Nel 4^ episodio di "Bada a come parli", il podcast di VITA per parlare di sociale e ambiente con le parole giuste, affrontiamo l'acronimo del momento, Esg, affiancato, ma talvolta anche opposto, a Csr. Dubbi lessicali sciolti da Rossella Sobrero, "inventrice" del Salone della Csr e dell'innovazione sociale. Ascolta

di Giampaolo Cerri

Uno è l’acronimo del momento, quello che non manca mai se si parla, per esempio, di cambiamento climatico: Esg. Ormai, lo sappiamo bene, significa Environmental, Social and Governance, ossia “ambientale”, “sociale” e “di governance”.

L’altro, Csr, è la sigla che ha accompagnato la nascita, in tutto il mondo, della consapevolezza che una “responsabilità sociale di impresa”, questa la traduzione di Corporate social responsibility, fosse necessaria allo sviluppo autenticamente sostenibile di qualsiasi Paese.

Da un po’ di tempo, si usa moltissimo Esg e un po’ meno Csr, ma spesso li si utilizzano anche come sinonimi perfetti. È corretto? Non esattaamente ma per parlarne in maniera appropriata abbiamo chiesto a Rossella Sobrero, comunicatrice che, da 22 anni, con la sua Koinetica, si occupa di responsabilità di impresa e che da 12 organizza il Salone della Csr e dell’Inclusione sociale (Milano, 9/11 ottobre, Università Bocconi)..

Rossella Sobrero

A Sobrero, autrice di saggi molto apprezzati in materia, come il suo ultimo Pericolo socialwashing (Egea), abbiamo chiesto di spiegare la differenza fra Csr e Esg nel quarto episodio di Bada a come parli, il podcast di VITA per parlare bene di sociale, ambiente e sostenibilità, ovvero di farlo usando le parole giuste.

Con lei abbiamo anche sfatato l’idea che Esg rappresenti una lettura più aggiornata dei problemi di sostenibilità rispetto a Csr. «Esg è un rating», ha spiegato Sobrero, «è uno strumento di misurazione. Quindi non si può confondere la Csr, che è un driver strategico con uno strumento con cui si misurano le performance».

Viaggio lessicale nel Non profit

Gli altri episodi di Bada a come parli, podcast per le abbonate e gli abbonati, nato da un’idea di Stefano Arduini e realizzato da chi scrive, li trovate qui nella sezione podcast.


Nel primo episodio, Flaviano Zandonai, sociologo e responsabile Open Innovation di Cgm, il più grande consorzio di cooperazione sociale d’Italia, ci aveva spiegato la differenza fra Terzo settore e Non Profit, ci raccontato l’origine di queste espressioni, e di un’altra, che un tempo si usava di più: privato sociale.

Basta “no profit”!

Con Paolo Venturi, economista e direttore di Aiccon Research, abbiamo messo all’indice – definitivamente, speriamo – l’errore (e l’orrore) di scrivere, o dire, “no profit”.

Elena Zanella, Flaviano Zandonai, Paolo Venturi

Si dice e si scrive “non profit” ma non si tratta solo di un innocente sbaglio di traduzione, significa infatti not for profit, cioè “non per profitto”. No, spesso questo utilizzo fallace nasconde un’idea residuale, ancillare, del Terzo Settore, che appunto non può fare profitto. In realtà, ha spiegato Venturi, l’utile, meglio l’avanzo, in una realtà non profit ci può essere, solo che ovviamente non andrà distribuito ma reinvestito nell’oggetto sociale dell’impresa.

Con Elena Zanella, fundaraiser, scrittrice e docente, abbiamo poi parlato del binomio “fundraising – raccolta fondi”.

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Vi ricordiamoche Bada a come parli è aperto, assolutamente aperto ai contributi di tutti, per cui se aveste qualche curiosità lessicale, qualche dubbio linguistico scrivete qui: parlandone con qualche nostro esperto chiariremo qualsiasi dubbio.

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L’ultimo numero, uscito ieri, racconta i Borghi futuri, traccia cioè una mappa ideale di 35 paesi in cui amministratori, cittadini, volontari hanno scritto una storia generativa e inclusiva delle loro comunità. Ci troverete tanti termini come “amministrazione condivisa”, “coprogrammazione” o “aree interne” che saranno al centro dei prossimi episodi. Stay tuned e abbonatevi!

La copertina di VITA magazine di luglio/agosto

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