Cultura

Esercizi di memoria

di Maria Laura Conte

A Lviv ti capita di pensare che al fondo di tutto ci sia una drammatica questione di memoria perduta. Che non sia possibile che ci si sia dimenticati di quello che ha insegnato la storia, del prezzo delle guerre, delle bombe, impossibile che nessun diplomatico nel XXI secolo sia in grado di risolvere questo conflitto, di fermarlo, prima che incenerisca vite innocenti e città intere. E invece è in pista la Grande Smemoratezza mentre si ammazza, si bombarda. Allora che resta a noi da fare? Esercitare noi la memoria, cominciare noi. In prima persona.

Non voglio dimenticare il viso del soldato al checkpoint incrociato stamane, poche ore dopo che il cielo si era illuminato per un bombardamento. Stava lì, si avvicinava alla nostra auto, ma aveva più paura lui di noi, con il fucile imbracciato, che noi di lui. Poteva essere mio figlio in quella divisa, la pelle del viso bianca e tirata, al freddo alle 6 del mattino, a meno cinque gradi. Non avrebbe dovuto essere là, ma spensierato nei suoi vent’anni ad aspettare la morosa da qualche parte.

Non voglio dimenticare l’energia inesauribile di Wieslaw, che dirige la Caritas da un furgone scassato che percorre avanti e indietro la strade tra Lviv e la frontiera, facendo tappa in case famiglie di orfani sfollati da Kiev, e centri di accoglienza per ucraini in fuga dall’Est. Non dorme, mangia poco, è sempre o al telefono o a spostare pacchi di aiuti, a prendere nota di tir in arrivo da tutta Europa, a risolvere problemi di consegne, a portare in giro operatori di ong che provano ad essere di aiuto mentre è lui che li aiuta. Non voglio dimenticare quanto riesce a consumarsi per chi non conosce, ma ritiene che meriti aiuto.

Non voglio dimenticare le rughe tese del volto di Maria, poche parole e presenza totale: non ha marito ma ha adottato tre ragazzi e ora li ha spediti in Francia da sua sorella per metterli al sicuro, mentre lei resta in città a lavorare per gli aiuti umanitari.

aveva più paura lui di noi, con il fucile imbracciato, che noi di lui

Mentre ai tavoli di discute in modo inconcludente di come sistemare confini e se consegnare aerei o armi, questi rischiano, muoiono.

Voglio ricordare la sensazione che afferra quando parte la sirena che avvisa che da qualche parte qualcosa (un aereo? Un missile? E che tipo di missile?) ha varcato il cielo ucraino e potrebbe portare morte, sangue, dolore. Un rumore che appositamente fa trasalire perché deve convincerti a lasciare quello che stai facendo e metterti al riparo.

Non voglio perdere la memoria della pazienza e la solidità di quella giovane volontaria appena trentenne che al freddo di un magazzino gigantesco passa quindici ore al giorno a registrare i lavori di preparazione dei pacchi di beni, cibo, abiti, coperte, sacchi a pelo, materassini, peluche, tutto quel che può servire a chi è vittima di bombardamenti. Lei avrebbe dovuto essere da un’altra parte, senza guerra, al caldo di un ufficio a far carriera, o a leggere un buon libro in un giorno di riposo. Invece sta qui, un profilo dolce, concentrato su un block notes, a inalare l’adrenalina dei compagni.

Voglio ricordare la monaca leggera, minuta, dallo sguardo azzurro, che nel suo abito nero emana luce mentre serve pasti caldi ai sfollati al centro di Solonika. Lei stessa sfollata tra gli sfollati. Perché questo succede: chi ha salvato la pelle, vuole aiutare gli altri. Voglio ricordare lo sguardo basso degli uomini che accompagnano le mogli e figli alla frontiera. Non hanno parole, non hanno espressione. Che parole dire quando lasci chi ami e non riesci a vedere un domani certo?

Voglio tenere a mente i passi saltellanti dei bambini e delle bambine, piedi stretti in doposci contro il gelo dell’inverno qui, e il pon pon del berretto che balla mentre attraversano il confine. Non sanno o preferiscono ignorare la ragione per cui se ne vanno, continuano a giocherellare, guardare con timidezza la guardia di confine che porge loro una merendina, e soffermarsi sui dettagli che solo i bambini sanno intravedere per entrare in un mondo fantastico.

Non dimentico che stanno scavando rifugi nei parchi di Lviv né che Orest, professore di quasi sessant’anni è certo che non attaccheranno mai Leopoli perché se neanche Hitler ebbe l’audacia di farlo, lo potranno fare questi?

Non voglio dimenticare loro tutti, che restano là mentre noi siamo al sicuro. Forse.

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