Qualche commentatore ha trovato esagerata l’uscita di Benedetto XVI di pochi giorni fa davanti al Corpo diplomatico accreditato presso la Santa Sede, quando riferendosi all’Europa ha lanciato l’allerme sulla libertà religiosa nei Paesi europei. Il Papa agli ambasciatori ha detto che: “la religione subisce una crescente emarginazione” e si tende a considerarla (“ogni religione”, ha precisato), “come un fattore senza importanza, estraneo alla società moderna o addirittura destabilizzante, e si cerca con diversi mezzi di impedirne ogni influenza nella vita sociale”? E poi, ancor più duro: “Non soltanto si limita il diritto dei credenti all’espressione pubblica della loro fede, ma si tagliano anche radici culturali che alimentano l’identità profonda e la coesione sociale di numerose nazioni”. Ecco il Papa ha esagerato?
A mio parere no. Ecco perchè.
Il primo spunto ce lo dà la cronaca recente, i manifesti di Pitti uomo (di cui riproduciamo due immagini) che hanno sucitato polemiche stanno lì a dimostrare quanto già Pasolini scriveva sul “Corriere della Sera” il 17 maggio 1973 a proposito della campagna pubblicitaria dei jeans Jesus (Il folle slogan dei jeans Jesus, era il titolo dell’articolo). “È possibile prevedere un futuro come “fine di tutto”? Qualcuno -come me- tende a farlo, per disperazione: l’amore per il mondo che è stato vissuto e sperimentato impedisce di poter pensarne un altro che sia altrettanto reale; che si possano creare altri valori analoghi a quelli che hanno resa preziosa una esistenza. Questa visione apocalittica del futuro è giustificable, ma probabilmente ingiusta. Sembra folle, ma un recente slogan, quello divenuto fulmineamente celebre, dei jeans “Jesus”: “Non avrai altri jeans all’infuori di me”, si pone come un fatto nuovo, una eccezione nel canone fisso dello slogan, rivelandone una possibilità espressiva imprevista, e indicandone una evoluzione diversa da quella che la convenzionalità -subito adottata dai disperati che vogliono sentire il futuro come morte – faceva troppo ragionevolmente prevedere. (…) Il caso dei jeans “Jesus” è un spia di tutto questo. Coloro che hanno prodotto questi jeans e li hanno lanciati nel mercato, usando per lo slogan di prammatica uno dei dieci Comandamenti, dimostrano – probabilmente con una certa mancanza di senso di colpa, cioè con l’incoscienza di chi non si pone più certi problemi- di essere già oltre la soglia entro cui si dispone la nostra forma di vita e il nostro orizzonte mentale. C’è, nel cinismo di questo slogan, un’intensità e una innocenza di tipo assolutamente nuovo, benché probabilmente maturato a lungo in questi ultimi decenni (per un periodo più breve in Italia). Esso dice appunto, nella sua laconicità di fenomeno rivelatosi di colpo alla nostra coscienza, già così completo e definitivo, che i nuovi industriali e nuovi tecnici sono completamente laici, ma di una laicità che non si misura più con la religione. Tale laicità è un “nuovo valore” nato nell’entropia borghese, in cui la religione sta deperendo come autorità e forma di potere, e sopravvive in quanto ancora prodotto naturale di enorme consumo e forma folcloristica ancora sfruttabile.
È a tutti evidente come sia sia andati ben oltre il cinismo denunciato 37 anni fa da Paolini e di come oggi, non solo la laicità non si misuri più con la religione ma di come la senta con fastidio, come un residuo da cui sbarazzarsi. Insomma,quando il Papa dice che “si tagliano anche radici culturali che alimentano l’identità profonda e la coesione sociale di numerose nazioni”, se ragioniamo secondo la traccia di Pasolini dice non una esagerazione ma una banalità.
Ma c’è un secondo spunto. Il Papa con il suo allarme, nomina un nodo che l’attualità s’incarica di rendere sempre più evidente: la tendenza dell’Europa a liberarsi dalla storia e dalle radici cristiane che pure stanno all’origine delle sue mappe valoriali, anche della laicità degli Stati. I suoi simboli, dal Crocefisso alle forme di devozione popolare, dalle feste religiose ai santi (in Umbria persino San Francesco e San Benedetto sono riusciti a dividere il Consiglio regionale), sono visti come un residuo di superstizione e spesso vissuti o con un senso di colpa o come elementi identitari esteriori, folkloristici. Il Papa, sottolineando il problema, sente una doppia drammaticità, quello di una Chiesa, quella cattolica, che deve ricomprendersi come minoranza creativa, e quella di uno spazio pubblico che tende sempre più a non riconoscerla.
L’Europa, del resto, è il solo continente nel quale gli individui, nei due secoli appena passati, sono stati “forzati” a privatizzare i loro principi religiosi. Il fatto è che la Rivoluzione francese è stata cosa assai diversa dalla Rivoluzione Americana. Da quest’ultima è disceso il principio di neutralità – che significa imparzialità – dello Stato nei confronti delle religioni: lo Stato non può preferire una religione alle altre, ma tutte sono, non solo consentite, ma favorite nella loro espressività e operatività e concorrono alla formazione dell’ethos pubblico. Dalla prima è disceso, invece, il principio di separazione – che significa indifferenza – tra Stato e religioni, principio che ha via via escluso le religioni dalla costruzione dell’etica pubblica.
Eppure oggi in Europa, il concetto stesso di “laicità”, nell’era della post secolarizzazione, è in crisi irreversibile, una crisi andata ben oltre quella denunciata da Pasolini. Avendo rescisso il rapporto con ogni possibile sorgente di moralità comune, essa non è più in grado di far presa sulla realtà, vale a dire di dare risposte credibili a interrogativi del tipo: quale ha da essere il rapporto tra etica e economia; tra valori fondamentali e diritto; quali risposte dare alle sfide della multiculturalità; come possono soggetti portatori di concezioni di vita assai distanti tra loro vivere in una società politica unitaria; quali sono gli elementi comuni delle diverse matrici culturali presenti in uno stesso paese che devono entrare nella cosiddetta “ragione pubblica”.
Pretendendo di continuare ad applicare il principio di separazione, in un contesto in cui il riferimento al Decalogo non è più né cosa scontata né rivendicata, lo Stato per continuare ad autoproclamarsi laico non può far altro che fare ciò che oggi si osserva. E cioè: quel che è tecnicamente possibile, lo Stato deve consentirlo; ciò che l’individuo preferisce, la legge non deve vietarglielo. Se lo Stato è laico – si ragiona – anche la sua legislazione deve essere laica, cioè indifferente, dato che non v’è un criterio, da tutti accettato, di fissare un ordinamento di valori su ciò che riguarda il bene.Ma una posizione del genere è assai pericolosa perché gravida di effetti perversi. Infatti, per sostenere la tesi secondo cui la legge non può distinguere tra opzioni che riguardano il bene bisogna accettare di ridurre l’agire politico ad un agire meramente procedurale. Ma lo Stato laico che, accettando la concezione proceduralista della democrazia, si autonegasse ogni potere di intervento e di decisione in materie come la struttura e il ruolo della famiglia; la giustizia distributiva; la felicità pubblica; la manipolazione genetica; la definizione di ciò che distingue ultimamente l’umano dal non umano, rischia di essere uno Stato che mira alla propria autodistruzione. Ed è il rischio di cui vediamo segni incipienti in Italia e in altri Stati europei (si pensi al Belgio senza Governo da più di 200 giorni). È il rischio stesso che corre l’Unione europea che finisce per rappresentarsi sempre più come un mostro procedurale senza anima e senza voce.
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