Welfare

Eritrea, il “far west” che abbiamo rimosso

Carlo Lucarelli: così ho scoperto un pezzo d'Italia in piena Africa

di Chiara Cantoni

«Il loro e il nostro passato sono stati per molti anni lo stesso. Ma ce ne siamo scordati. E quando arrivano sui barconi
li vediamo solo come estranei. Ma non è così» «Li vediamo arrivare stipati sui barconi attraverso le immagini tv, i giornali ci dicono che in 73 sono morti durante la traversata, e per il tempo di un tg ci domandiamo chi siano questi disgraziati che tentano la sorte. Eritrei, gente lontana che ha creduto di farsi più vicina, meteoriti finiti accidentalmente nell’orbita mediatica delle cronache italiane. Ce ne dispiace, di quel dispiacere un po’ incredulo ma soprattutto sfocato che si concede agli sconosciuti, perché, in fondo, questi chi li ha mai visti? Oggi, dire Eritrea non significa nulla, non evoca nulla, parte indistinta di quella sciagurata vicenda che si chiama immigrazione». Di fronte all’estraneità emotiva che separa gli italiani dal popolo eritreo, lo scrittore Carlo Lucarelli si sente avvilito: «La storia del nostro Paese è così strettamente intrecciata alla loro che il riconoscimento reciproco dovrebbe essere immediato?». Forse anche per questo ci ha scritto un libro, L’ottava vibrazione, ambientato a Massaua, durante la campagna d’Africa orientale, alla vigilia della disfatta di Adua (1896). Per dire che no, non siamo poi così lontani, noi e loro, che un passato comune c’è e si chiama colonialismo. Anche se un comodo vuoto di memoria ha rimosso ogni cosa, impedendo che attorno a quelle vicende si sviluppasse una coscienza collettiva. «Mi sono chiesto perché so tutto di Custer a Little Big Horn e niente di Adua», dice. «Abbiamo anche noi nella nostra storia un Far West che permette di raccontare metafore avventurose. L’Italia coloniale è uno dei nostri Far West». Così è cominciata la sua personale frequentazione del Corno d’Africa, così è cominciato il tentativo di riappropriarsi di un pezzo di storia italiana.
Vita: Quando ha deciso che l’Eritrea è un buon soggetto narrativo?
Carlo Lucarelli: Agli esordi della guerra in Iraq; la politica italiana stava valutando l’opportunità di mandare nel Golfo i nostri soldati e il dibattito pubblico si accendeva sul rapporto fra l’Italia e i cosiddetti Paesi “non civilizzati”. Ebbi la curiosità di fare un percorso a ritroso e andare a vedere cosa era accaduto oltre cento anni fa, quando ai governi crispini si poneva questo stesso interrogativo. È un pezzo di storia che non si insegna più e che io stesso ho dovuto recuperare.
Vita: Cos’ha scoperto?
Lucarelli: Per esempio, che esistono delle costanti nel modo in cui l’Italia si rapporta ai Paesi in via di sviluppo. Una di queste è la mancanza di conoscenza, la superficialità. Nei documenti raccolti per scrivere il romanzo, alcuni discorsi sulla civilizzazione e sullo sviluppo economico da esportare nelle colonie africane ricalcano molto da vicino i più recenti dibattiti in aula sull’esportazione della democrazia. Al fondo, allora come oggi, c’è una profonda ignoranza di questi territori, cui si accompagna un immaginario totalmente sconclusionato.
Vita: Eppure l’Italia non si considera un Paese colonialista?
Lucarelli: Ma lo è stato. E il fatto che abbia rimosso quella pagina di storia, oggi, non aiuta a riconoscenere l’immigrato eritreo come depositario di un passato comune. Io, per esempio, sono dovuto andare in quel Paese, ho dovuto frequentarlo, per capire chi avevo davanti, per capire che quello è un pezzo d’Italia, non in termini di proprietà coloniale, ovvio, ma di prossimità culturale.
Vita: Ci faccia un esempio…
Lucarelli: La natura, i volti, i suoni, i colori, ti dicono che sei in un altro mondo. Poi entri in un bar, chiedi un caffè e ti servono un espresso come in nessun altro Paese europeo. Molti eritrei frequentano la scuola italiana: parlano la nostra lingua, studiano sui nostri stessi programmi Garibaldi e Cavour, talvolta conoscono dettagli della nostra storia che persino noi abbiamo smarrito. È gente che quando la incontri ti racconta di come il padre o il padre del padre sia morto fra gli ascari arruolati nelle truppe italiane. E tu non puoi fare a meno di pensare che là, a combattere quelle guerre, c’era anche tuo nonno. Poi, quando torni in Italia, cominci a vedere l’Eritrea dappertutto, quotidianamente: nelle scuole, nei supermercati, nelle strade. Inaspettatamente scopri che molti dei tuoi conoscenti, sia bianchi, sia abesha (abissini), hanno origini eritree, scopri che le genealogie italiane sono strettamente intrecciate alle eritree. Perché il nostro e il loro passato è stato per molti anni lo stesso. Ma noi ce ne siamo scordati?
Vita: Senso di colpa, volontà politica o cos’altro?
Lucarelli: Entrambe. Ma, soprattutto, mancanza di un immaginario comune. Se dico Fort Apache, tutti pensano ai film di John Ford, al costone di un canyon, al sole rosso, agli uomini a cavallo con la lancia e le penne; se dico India, tutti pensano alla zuppa di riso di Rudyard Kipling. Gli altri Paesi hanno avuto una letteratura post coloniale attorno agli anni 50, l’Italia invece non ha ancora metabolizzato il suo passato, e non parlo di storiografia – di libri ne abbiamo tanti – ma di immaginario popolare. In Francia o in Inghilterra, i volti di queste persone, i profumi, i colori, farebbero parte della cultura inglese e francese, pur con tutte le contraddizioni. E invece gli è toccata l’Italia, che li guarda ora come fossero altro da sé, come se scoprisse l’Eritrea per la prima volta perché arriva sui barconi.
Vita: Il suo è uno fra i primi esempi di letteratura post coloniale italiana?
Lucarelli: È il tentativo di mettere in scena questo immaginario condiviso. Credo che sentirsi sempre un po’ d’Africa nella testa ci farebbe bene. Fra l’altro, quello eritreo è un popolo con cui l’integrazione sarebbe davvero facilissima?


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