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Eritrea, anche la Cina si sfila
È stato un voto di grande importanza che sanziona il Paese per il sostegno alle formazioni jihadiste in Somalia. E Pechino per la prima volta si è astenuta
Il Consiglio di Sicurezza dell’Onu, il 22 dicembre, ha votato una risoluzione che potrebbe segnare una svolta nelle tormentate vicende che assillano da decenni il Corno d’Africa. Voluta caldamente dall’Unione Africana, la Risoluzione prevede una serie di sanzioni contro l’Eritrea per il sostegno dato alle formazioni jihadiste disseminate in Somalia. Un provvedimento passato con l’approvazione di 13 dei 15 membri del Consiglio, che contempla una serie di misure restrittive nei confronti del regime di Asmara: dai divieti sulla vendita di armi, al congelamento di asset finanziari, ai divieti di espatrio. Da rilevare che l’unico voto contrario è stato quello della Libia, mentre la Cina si è sorprendentemente astenuta.
In un primo momento sembrava che Pechino fosse contraria al provvedimento, ma poi, in qualità di membro permanente del Consiglio, ha deciso di non porre il veto. Ed è questo il dato politico importante, considerando i forti interessi del governo cinese in Africa. Solitamente Pechino è molto attenta a non inimicarsi quei governi con i quali intrattiene relazioni commerciali, ma questa volta ha ritenuto opportuno ricorrere alla formula dell’astensione che ha sortito l’effetto di un vero e proprio “tradimento” nei confronti di Asmara.
Gli analisti si sono naturalmente domandati come mai la Cina abbia rinunciato a lanciare il salvagente al proprio alleato e le ragioni sembrano essere fondamentalmente due. Anzitutto perché ormai è stato ampiamente dimostrato che l’Eritrea rappresenta un soggetto altamente destabilizzante nel difficile cammino di riconciliazione nazionale in Somalia. Sono infatti state raccolte numerose testimonianze che indicano gli stretti legami tra l’ala oltranzista dell’opposizione somala e il governo di Asmara, sia dal punto di vista dei rifornimenti di armi e munizioni, come anche sul versante dell’addestramento bellico. Inoltre, e questo è il secondo motivo per cui Pechino s’è tirata indietro, l’Eritrea sta sempre di più diventando un partner imbarazzante per la comunità internazionale.
Il presidente eritreo Isayas Afeworki, che negli anni 70 e 80 era considerato un sincero combattente per la libertà, ha imposto il monopartitismo impedendo lo svolgimento di libere elezioni. Sta di fatto che dall’indipendenza in poi, molti oppositori politici sono stati arrestati e l’economia nazionale è allo stremo. Afeworki e i suoi stretti collaboratori hanno praticamente il controllo di tutto: assetti istituzionali e militari, scelte politiche, programmi economici. L’opposizione è costretta all’esilio, mentre la tortura è sistematicamente applicata per punire chi ha eluso la leva, i disertori, i soldati accusati di reati militari o gli appartenenti a minoranze religiose. Ecco che allora molti eritrei cercano disperatamente riparo all’estero. Sono tantissimi i profughi che, dopo un esodo infernale, arrivano sulle coste del Mediterraneo e si imbarcano sulle carrette del mare per raggiungere il nostro Paese.
Naturalmente l’ambasciatore eritreo all’Onu, Araya Desta, ha criticato aspramente le sanzioni, definendole «vergognose» e ha accusato Stati Uniti ed Etiopia di aver spinto il Consiglio di sicurezza ad adottare la risoluzione. Se da una parte è vero che anche il governo di Addis Abeba non brilla per rispetto dei diritti umani e ha anch’esso le sue gravi responsabilità nello strazio che affligge la Somalia, dall’altra va ricordato che l’Eritrea intrattiene ottime relazioni con esponenti di spicco dell’estremismo islamico. Non v’è dubbio allora che se i Paesi occidentali, l’Unione Africana e la Cina cominceranno ad adottare una politica comune nel Corno d’Africa, questa potrebbe sortire degli effetti positivi nella martoriata nazione somala.
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