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Ergastolo

Intervista a Luciano Eusebi: il 'senza fine mai' va cancellato dal vocabolario

di Stefano Arduini

Negli istituti italiani sono rinchiusi oltre 1.200 detenuti condannati all?ergastolo (1.224, secondo i dati dell?osservatorio dell?associazione Antigone, riferiti al dicembre del 2005). Potrebbero essere gli ultimi, se il Parlamento darà semaforo verde al progetto di riforma del Codice penale elaborato dagli esperti della commissione Pisapia, istituita presso il ministero di Giustizia il 27 luglio 2006.

L?avvocato milanese, esponente indipendente di Rifondazione comunista, ha infatti recentemente consegnato le conclusioni dei lavori sul tavolo del Guardasigilli. L?abolizione del carcere a vita sostituito con una pena massima di 34 anni di reclusione ha accesso la miccia del dibattito pubblico, pur non esaurendo la portata di una riforma che si pone l?obiettivo di superare i limiti del Codice Rocco, costruendo un sistema penale meno feroce sulla carta, ma più fedele ai precetti della carta costituzionale.

I toni del dibattito si sono poi esacerbati ulteriormente dopo la pubblicazione di una lettera aperta che un gruppo di 310 ergastolani ha spedito a una serie di testate fra cui Repubblica e Vita. Il messaggio della missiva è choccante (vedi la lettera): meglio la pena di morte che morire giorno per giorno nelle nostre celle. Giusto o sbagliato abolire l?ergastolo?

Luciano Eusebi, ordinario di Diritto penale, ha fatto parte della commissione Pisapia e con la sua esperienza ha sostenuto la proposta che ora è al vaglio del Parlamento: cancellare la parola ergastolo dal vocabolario italiano.

Vita: La commissione Pisapia, di cui lei ha fatto parte, ha concluso i suoi lavori con una proposta che è una sfida culturale: abolire l?ergastolo. Riusciremo davvero a cancella re questa parola dal vocabolario?
Luciano Eusebi: Il superamento del ?fine pena mai? costituisce un messaggio di razionalità di forte impatto. Su questo punto la riflessione criminologica europea è concorde: le esigenze di prevenzione non sono legate a una pena che copra l?intero arco della vita di una persona. Il mantenimento dell?ergastolo risponde essenzialmente a fattori emotivi che tendono a ritenere che l?unica strada per segnalare l?obiettiva gravità di un fatto sia l?entità della pena. Il concetto è: più pesante è la pena, più duratura la privazione della libertà personale, meno saranno i pericoli per la società.

Vita: Invece come stanno le cose?
Eusebi: L?intimidazione e la neutralizzazione del reo non producono effetti preventivi sostanziali. La chiave, al contrario, sta nella capacità dell?ordinamento giuridico di tenere alti i livelli di consenso verso le norme sociali. In questo senso una persona che consapevolmente prende le distanze da un?esperienza criminale, con il suo esempio, rafforza enormemente l?autorevolezza di una legge. Lavorare nell?ottica della reintegrazione non significa inseguire un?idea di umanitarismo contro l?interesse preventivo della società, ma vuol dire lavorare al consolidamento di ciò che davvero fa prevenzione. L?abolizione dell?ergastolo sarebbe però un?occasione sprecata se non venisse accompagnata dalla diversificazione della tipologia delle pene. All?estero, per esempio, il ricorso alle pene pecuniarie è molto più diffuso che in Italia. Il superamento dell?istituto del carcere oggi mi sembra velleitaria, ma la detenzione dovrebbe comunque costituire la risposta a situazioni in cui si registri un effettivo pericolo di reiterazione. Altrimenti un carcere senza prospettiva diventa la discarica sociale dei problemi meno gestibili.

Vita: Lei quindi ritiene che l?ergastolo non sia in alcun modo legato a legittime esigenze di sicurezza?
Eusebi: Il nesso è fittizio e risponde a logiche di creazione di consenso elettorale. La proposta della commissione Pisapia lancia una grande sfida culturale. Cogne è stato messo sulla ribalta. Ma quello è un episodio a suo modo unico. In termini percentuali la possibilità per ognuno di noi di essere coinvolti in fatti del genere è insignificante. Recentemente invece ho partecipato a un incontro con Amnesty international. Un avvocato dell?associazione rilevava come nelle bergamasca i tassi di alcuni tipi di tumore siano cresciuti del 50%. In Campania i casi di malformazioni sono di gran lunga superiori alla media. La nostra sicurezza si gioca su questi temi o in casa della Franzoni? Io credo che l?opinione pubblica di un Paese con i più alti tassi di volontariato penitenziario al mondo sia in grado di rispondere in maniera razionale a questa domanda.

Vita: Chi sono oggi gli ergastolani?
Eusebi: Il numero delle persone che scontano pene di questo tipo in Italia è alto. Il nostro non è un sistema ?morbido?, come qualcuno sostiene. Molto spesso si tratta di individui che hanno commesso un grave fatto di sangue che però rimane un episodio in qualche maniera a sé stante della loro vita. Sono drammi della condizione umana rispetto a cui occorre riconoscere che sono scarse le chanche di effettiva prevenzione, se non, forse e in parte, attraverso la presenza sul territorio di una fitta rete di servizi sociali. Non credo che in queste situazioni abbia senso mantenere una pena che non stimola alcun percorso di rielaborazione. Ovviamente questo discorso ha un valore differente nel caso di personaggi connessi alla criminalità organizzata.

Vita: E le vittime? L?abolizione dell?ergastolo non potrebbe venir interpretata, dal loro punto di vista, come un colpo di spugna?
Eusebi: Proprio in Italia abbiamo avuto testimonianze di grandissimo spessore umano da parte di molte vittime di reati, che hanno indicato come la strada di una prevenzione seria e responsabile non si limiti all?opposizione del negativo (la cella) al negativo (il crimine). Mi riferisco, per esempio, alla figura straordinaria di Luciano Paolucci, un papà che si è visto massacrare il piccolo Lorenzo da Luigi Chiatti (il mostro di Foligno). Da quell?esperienza così lacerante ha trovato la forza di promuovere una rete di associazioni di volontariato che oggi affrontano i problemi umani dei cosiddetti mostri.

Vita: Ma non è possibile chiedere a tutte le vittime di essere Luciano Paolucci. Non crede?
Eusebi: Ma la vittima a cosa mira davvero? Non cerca la ritorsione in sé, a meno che questa non sia l?unica via che le si offre per dare una risposta alle sue esigenze. Il primo bisogno è il chiarimento delle responsabilità, la necessità che la prevaricazione sia evidente agli occhi di tutti, che la comunità riconosca che quell?episodio non doveva avvenire e abbia la certezza che non si ripeterà. Se la prospettiva è questa, è il dialogo con l?autore del reato a produrre i risultati più soddisfacenti: perché alla fine del percorso è lo stesso reo a riconoscere autenticamente le esigenze della vittima. All?epoca del Giubileo, papa Giovanni Paolo II parlando a Regina Coeli davanti ai carcerati ricordò che le vittime ottengono molto di più dal constatare un percorso di presa di distanza dal reato, e quindi di rielaborazione di una precedente esperienza di vita, che non semplicemente dallo «scotto penale», ha usato proprio questo termine, che i detenuti pagano in cella.

Vita: In Italia la mediazione penale è uno strumento utilizzato poco ed esclusivamente nella giustizia minorile. Crede davvero che possa essere utile anche nel mondo degli adulti?
Eusebi: Non si può immaginare che sia l?unico strumento, ma anche per i fatti di grande gravità è una misura che può essere estremamente significativa. In Sudafrica sulle basi della mediazione penale hanno ricostruito l?anima di un Paese dopo gli anni dell?apartheid. La legge italiana, del resto, oltre che nel minorile la prevede espressamente nei procedimenti penali in capo al giudice di pace. Consiste in una momentanea del processo nel momento in cui l?assoluzione sia già esclusa. A questo punto il mediatore invita il reo e la vittima al tavolo di mediazione. Dove, in assenza del giudice, torna possibile quello che in un processo pubblico non è possibile, ovvero dirsi la verità. La mediazione ripone al centro la verità, perché quello che viene detto non può essere utilizzato in giudizio. Ridiventa possibile ciò che molto spesso richiedono proprio le vittime: guardare in faccia il colpevole. Se il confronto funziona, ecco la seconda novità: è lo stesso autore del reato a proporre una condotta riparativa che va al di là della sentenza, segnalando in questo modo la volontà di ristabilire un rapporto leale con la vittima e con l?ordinamento giuridico.

Vita: Esiste nel mondo un sistema modello a cui ispirarsi?
Eusebi: In molti Paesi il fine pena mai è stato archiviato. In molti altri persiste. Ma su questo terreno non è corretto stabilire una divisione secca fra chi prevede l?ergastolo e chi non lo prevede, come è giusto fare con la pena di morte. In Germania, per esempio, il carcere a vita è ancora in vigore, ma al di fuori di questo caso la pena massima è di appena 15 anni. In Spagna, al contrario, l?ergastolo non esiste più, ma la pena massima arriva a 40 anni. Mi chiedo: qual è il sistema penale più efficiente fra i due? Una cosa però è certa: l?ergastolo di per sé è una pena squilibrata.

Vita: In che senso?
Eusebi: Incide in maniera differente a seconda dell?età del condannato. Se subìto nel periodo giovanile, stravolge la fase esistenziale più feconda di una persona, ma lascia intravvedere almeno nella fase adulta o della vecchiaia la possibilità di una vita vissuta, almeno parzialmente, in libertà. Una prospettiva che dà un senso alla volontà di rielaborazione del fatto. Così non è se il condannato è già in là con gli anni. In questo caso si produce una totale perdita di qualsiasi motivazione esistenziale. L?ergastolo, poi, è anche una misura inevitabilmente diseguale. Il giudice infatti in questi casi si priva di ogni facoltà di calibrare la pena a seconda del caso concreto in esame.

Luciano Eusebi, bresciano, è ordinario di Diritto penale presso la sede piacentina dell?università Cattolica. Si è occupato soprattutto dei problemi attinenti alla riforma del sistema sanzionatorio, sottoponendo a critica la concezione retributiva della giustizia. Ha pubblicato La pena in crisi (Morcelliana) e Colpa e pena? La teologia di fronte alla questione criminale (Vita e Pensiero)

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