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Eppur si muove. Cè del nuovo a Milano
L'editoriale di Giuseppe Frangi sulla nuova realtà di Milano.
Capire cosa sta accadendo a Milano significa anche capire dove sta andando l?Italia. Accadde così da 50 anni, nel bene e nel male. è accaduto con il boom del dopoguerra, con i traumatici anni 70, con le illusioni e le paillette degli anni 80, con il brutale ritorno alla realtà degli anni 90. E ora quale segnale verrà da Milano? Se lo deve essere chiesto anche il cardinal Martini in questa sua lunga cerimonia d?addio alla città, in cui sembra aver voluto interpellarne a uno a uno i luoghi e i protagonisti. Martini è stato un personaggio centrale, ma insieme appartato. Ha accompagnato Milano in questo suo lungo travaglio, alla ricerca di una nuova fisionomia e di nuovi entusiasmi. Gli succederà Dionigi Tettamanzi, un lombardo, con caratteristiche un po? diverse: un minore prestigio intellettuale e più spiccate caratteristiche pastorali. E forse questo è un primo segnale che viene da Milano. Martini stesso, salutando la città, ha avuto un?attenzione tutta particolare verso le grandi istituzioni sociali che sono state una componente decisiva della storia di Milano. Vita ha raccontato questo particolarissimo tour nel numero scorso, tappa per tappa: dal don Gnocchi al San Raffaele, dall?Opera san Francesco alla Sacra Famiglia di Cesano Boscone. Sono realtà nelle quali si è realizzato un miracolo: la fedeltà alla propria storia e al proprio carisma non ha impedito una capacità di efficienza e di organizzazione assolutamente d?avanguardia.
Avevamo titolato quel viaggio appassionato raccontato da Riccardo Bonacina, ?La grande Milano?, non per retorica ma per esprimere la sorpresa d?aver ritrovato davanti a noi un pezzo di città così forte e così umana.
Scorrendo le agenzie, dopo l?annuncio della nomina di Tettamanzi, ha fatto piacere rivedere, attraverso messaggi e comunicati, i tanti nomi di questa Milano che non ha rinunciato alla propria anima solidale. Ci è sembrato di scorgere quasi un segnale d?orgoglio, come di chi per anni ha dovuto subire i modelli idioti del rampantismo, degli arricchiti senza passione e senza cultura, dei moralisti pronti a scagliare pietre pur di legittimare il proprio potere.
La Grande Milano ha continuato a vivere e a operare in una città che per decenni si è illusa di poterne fare a meno, di modernizzarsi camminando sulle passerelle della moda. Questo, dicevamo, è un buon segnale. Può esserlo doppiamente se pensiamo al nuovo tessuto umano e culturale della città. Quella compattamente aggregata nelle aree protette del cattolicesimo e del socialismo dal volto umano, non esistono quasi più. Il primo si è aggiornato nelle forme e scremato nei numeri, il secondo si è dissolto nelle forme ed è rimasto come un sentimento duro a morire. Attorno è cresciuta tutta un?altra città, fatta di piccole cellule, di realtà marginali, di reti informali, di centri sociali, di oratori senza preti, di solidarietà orizzontali. Tutte forme deboli, cresciute a dispetto della grande assenza di punti di riferimento istituzionali. Cresciute spontaneamente, in una città prigioniera della pochezza e del velleitarismo di chi avrebbe dovuto tenerne le redini (cioè politici, intellettuali e imprenditori). È una città di periferia che s?accende e poi quasi spontaneamente si spegne perché non trova mai nessuno che l?aiuti a consolidarsi e a crescere. È la città multietnica, che sa dare, come nessun?altra, tante opportunità ai suoi immigrati (una ricerca della Camera di commercio attesta che in città il tasso di crescita delle imprese ?etniche? segna un +27% contro il +0,2 delle italiane).
Ecco la scommessa: che Milano sappia dar vita a una nuova dinamica sociale in cui le forme innovative di socialità trovino davanti a sé un?ipotesi di crescita e una possibilità di permanere. E chi può fornire questa possibilità se non quella Milano, altrettanto sotterranea ma così prodigiosamente forte, che ha resistito in tutti questi anni dominati dal chiasso degli arricchiti e dei moralisti? Se questa miscela dovesse aver luogo, Milano davvero ricomincerebbe a dar segnali all?Italia. E sarebbero segnali di cui finalmente essere orgogliosi. Anzi, più che orgogliosi, di nuovo contenti.
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