Welfare

Enzo Mari, il design è una questione di “bene”

È morto uno dei grandi progettisti italiani. Un personaggio anomalo, testardamente libero rispetto alle mode e al sistema. Era convinto che compito del design fosse quello di dare forma a valori collettivi. E che la capacità progettuale fosse caratteristica di ogni uomo e non degli specialisti. Il ricordo di Giuseppe Frangi

di Giuseppe Frangi

L’immagine di lui seduto sul divano della sua casa milanese, statuario e silenzioso, è una di quelle immagini che difficilmente si cancellano dalla testa. Ho conosciuto Enzo Mari tardi, quando ormai parlava solo con il suo corpo da profeta, curato con decisa solerzia da Lea Vergine sua compagna per una vita (si erano incontrati nel 1966): «Mia moglie», aveva detto, «è la sola persona che conosca che non avendo la mentalità da casalinga si occupa della mia sopravvivenza».

Lo osservavi e scorgevi in lui un modo d’essere anomalo, insensibile ad ogni moda, testardo per amore delle cose e della realtà. Un uomo che aveva la solidità e irriducibilità di un antico tronco d’albero; un uomo-quercia. Enzo Mari è stato un vero operaio del design, impermeabile ad ogni frivolezza. Era un vero spirito antagonista, incapace di scendere a mediazioni, ma capace di una concretezza che lo portava sempre ad ottenere risultati che convincevano tutti. Lo hanno definito la “coscienza del design”, perché non accettava di fare un passo indietro rispetto a quel compito di “trasformare il mondo” attraverso la progettazione di oggetti. Un compito che si poteva realizzare, come lui stesso diceva solo ad una condizione: «quella di dare forma ad un valore collettivo, in cui tutti si riconoscono». Questo non significa affatto fare quello che tutti si aspettano, ma avere il coraggio di progettare con il rischio di non trovare il consenso. «Se tutti mi dicono “bravo” mi chiedo dove ho sbagliato. Se la cosa piace a tutti vuol dire che ho confermati la realtà esistente, ed è questo quello che non voglio».

Mari è stato l’emblema del design anti protagonistico. Detestava ogni personalismo. Cercava sempre con ostinazione di innescare processi partecipati, fino all’invenzione di quella magnifica pratica ai confini con l’utopia che è l’autocostruzione. «Non ho stili da proporre», diceva. «Ho deciso di non costruire un linguaggio. Cerco sempre di ripensare e di non comportarmi
accademicamente».

La sua storia è costellata di anomalie. Invenzioni che hanno conosciuto un grande successo commerciale proprio per la loro capacità di entrare negli ingranaggi della vita quotidiana delle persone (più di 1500 oggetti progettati, 5 Compassi d’oro vinti). E invenzioni che sono diventate come dei sassolini messi negli ingranaggi del sistema: proprio in queste settimane a Milano è aperta una mostra che rinnova l’esperienza straordinaria del lavoro creativo su falce e martello.

Ma il dato che unisce le due invenzioni è sempre uno: la prevalenza della realtà come criterio. Mari è sempre stato testardamente concreto. E soprattutto è stato mosso da un istinto di positività, molto più forte dello scetticismo feroce con cui guardava al mondo che lo circondava. Al fondo del suo fare c’era la convinzione che il “progettare” fosse un qualcosa che appartenesse all’umano in tutte le sue sfaccettature e che non andasse quindi irrigimentato dentro i dettami di qualsiasi ideologia. «Progettare è un’attività che coinvolge ogni pratica, nel momento in cui l’umanità cerca di migliorare le proprie norme, o, contraddicendole, trova soluzioni altre».

C’è una categoria nella quale si può codificare la sua attività: è la categoria di “bene”. Dove però il senso morale di questo termine non può mai essere scisso dal suo risvolto pratico: un oggetto deve funzionare bene, deve essere prodotto bene, deve essere disegnato bene. Questo ci ha insegnato Enzo Mari, un uomo che mettendosi sempre caparbiamente di traverso, alla fine ci ha aperto tantissime strade. Visitare la mostra che la Triennale, con Stefano Boeri e Hans Urs Obrist, gli ha dedicato e che si è appena aperta è un’occasione per rimettersi su quelle strade.

Cosa fa VITA?

Da 30 anni VITA è la testata di riferimento dell’innovazione sociale, dell’attivismo civico e del Terzo settore. Siamo un’impresa sociale senza scopo di lucro: raccontiamo storie, promuoviamo campagne, interpelliamo le imprese, la politica e le istituzioni per promuovere i valori dell’interesse generale e del bene comune. Se riusciamo a farlo è  grazie a chi decide di sostenerci.