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Enzo Manes, il filantropo che non crede nella meritocrazia
L'ideatore di Fondazione Dynamo, azionista e vicepresidente di Kme Group, leader in Europa nel mercato del rame, firma un autobiografia "irrequieta" ("Nessuno basta a se stesso"). L'abbiamo letta per voi
Un libro irrequieto e sobrio alle stesso tempo. Da questo apparente crash sgorga il racconto che l’imprenditore e filantropo Enzo Manes sviluppa in “Nessuno basta a se stesso” (sottotitolo: “perché abbiamo bisogno del bene comune”), edizioni Piemme, 141 pagine, 17,90 euro, interamente destinati a sostenere le attività di Fondazione Dynamo.
Azionista e vicepresidente esecutivo di Kme, società leader in Europa nella produzione di semilavorati in rame, nel 2003 Manes dà vita alla sua creatura filantropica che da quel momento in poi occuperà uno spazio sempre maggiore del suo tempo: Fondazione Dynamo. Il libro racconta la genesi e gli sviluppi di questo progetto che fino ad oggi ha ospitato 70mila persone fra ragazzi malati di patologie croniche e gravissime e i loro familiari e ha visto impegnati 10mila volontari a supporto di 250 collaboratori fissi ed altrettanti stagionali. Dynamo, col suo camp di Limestre sull’appennino pistoiese e i city camp è un gioiellino che è stato in grado di raccogliere cento milioni di euro in fundraising. “Nessuno basta a se stesso” non è solo la storia di Dynamo, quanto la ricostruzione di un percorso umano e intellettuale di un imprenditore, che, come pochi in Italia, incarna il principio americano del giving back, la restituzione alla propria comunità della fortuna che la vita ha offerto.
Il punto di partenza è definitivo: la meritocrazia è un falso mito. Scrive Manes, riprendendo un passaggio della relazione che tenne nel novembre 2003 alla Luiss di Roma quando fu nominato alumnus dell’anno, «…delle cose che ho realizzato, enormi rispetto alle mie aspettative iniziali, non ce n’è una che mi abbia costretto a particolari sacrifici, o a rinunciare a qualcosa di fondamentale per me o per i miei cari»; per poi riprendere una frase di Larry King che apre il capitolo intitolato “Contro la meritocrazia”: «Quelli che hanno avuto successo in qualcosa e non ammettono di aver avuto anche fortuna, stanno prendendo in giro se stessi”».
Manes arriva a dire che «se non avessi fondato io Dynamo prima o poi l’avrebbe fatto qualcun altro. Come dire che la fondazione non è il dono che ho fatto, ma quello che ho ricevuto». Citando l’economista Robert H. Frank, l’imprenditore molisano (Manes è originario di Campobasso), sostiene che nella competizione fra esseri umani a vincere sono in genere i più fortunati. E ancora: «...sottovalutare l’impatto della fortuna produce un costo economico. Chi riconosce l’impatto positivo della fortuna sulla sua vita è più propenso a contribuire al bene comune (in tutto quello spettro che va dal pagamento delle tasse alla filantropia) rispetto a chi attribuisce unicamente al proprio merito le ragioni del successo». Di più: «Se tutto questo è vero, allora è altrettanto vero che, per quanto grandi siano i nostri successi, solo una piccola parte di essi è merito nostro. Tutto il resto nasce dal contesto e dal nostro punto di partenza (patrimonio genetico compreso). Il merito delle azioni e quello delle persone non coincidono. Non è un caso che l’inventore della parola meritocrazia, lo psicologo Michael Young, attribuisse al termine un’accezione sostanzialmente negativa. Probabilmente proprio per la disinvoltura con cui è facile spostarsi dall’idea di merito a quella di diritto a privilegi individuali».
La storia del Manes filantropo e quella di Dynamo, fondata su quattro pilastri (generosità, concretezza, bellezza, autenticità), affonda le sue radici in questa ideologia basata sul riconoscimento del ruolo della fortuna nella vita di ciascuno. Un riconoscimento che ha due effetti diretti: la spinta a fare cose nuove, e la decostruzione del proprio ego. In due parole: irrequietudine e sobrietà.
Irrequietudine e sobrietà, umane, imprenditoriali e filantropiche, che si condensano intorno a una domanda, un vero e proprio cruccio per Manes: cosa può fare ciascuno di noi per cambiare il mondo? Un interrogativo che diventa, in conclusione del libro, proposta politica: un prelievo dell’uno per mille sulla ricchezza finanziaria (quindi non immobiliare) degli italiani (valutata in 5mila miliardi di euro), ovvero un prelievo insignificante per la maggior parte degli italiani (50 euro per chi ha un patrimonio finanziario di 50mila euro, per fare un esempio. In questo modo «si libererebbero 5 miliardi di euro l’anno da destinare al bene comune». Una legge fiscale che Manes ribattezza good tax. Ci arriveremo? «Il mio sogno (lucido e a occhi aperti)», conclude Manes, «è che non ci sia più ammirazione speciale per le persone di Dynamo, per i filantropi che si prendono cura di una causa o di un’altra ma che tutto questo, a un certo punto, possa sembrare a tutte le persone formate all’idea di bene comune la cosa più naturale e più giusta del mondo».
Foto di apertura: una sessione di terapia ricreativa a Dynamo camp
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