Famiglia

Enea, quel silenzio che avrebbe fatto bene a lui e ad altri bambini come lui

«Da una parte c’è la vicenda personale di Enea, della mamma che lo ha partorito e magari anche di un papà di cui nessuno sa nulla. Questa parte della vicenda deve finire qui, perché è una scelta intima di una mamma e di chi le è più vicino», afferma Marco Griffini, presidente di AiBi, associazione che da oltre 40 anni si occupa di bambini abbandonati. «Tutto il clamore suscitato da questa storia non aiuterà le prossime mamme a valutare questa scelta. Si pensi invece ad aumentare le Culle per la Vita, sono solo 60 in tutta Italia»

di Redazione

Sono 60 in Italia le “culle per la vita”. Dieci si trovano in Lombardia, sei in Sicilia, cinque in Piemonte e Veneto, tre nel Lazio e in Puglia e due in Campania. Basilicata, Molise, Sardegna e Friuli Venezia Giulia non ne hanno neanche una. La Culla per la Vita è una struttura concepita apposta per garantire sicurezza e protezione ai neonati e privacy alle mamme in difficoltà che hanno deciso di non crescere il bambino che hanno partorito. La Culla per la Vita infatti è dotata di una serie di dispositivi (riscaldamento, chiusura in sicurezza dello sportello, presidio di controllo h 24 e rete con il servizio di soccorso medico) che permettono un pronto intervento a salvaguardia del bambino: è un’estrema possibilità di accoglienza e di vita, che deve servire ad evitare un estremo gesto di rifiuto. Per questo tutti i dettagli legati alla vicenda del piccolo Enea, lasciato dalla madre nella Culla per la Vita della clinica Mangiagalli di Milano, fanno male a lui e alla possibilità che altre madri scelgano questa possibilità anziché luoghi più rischiosi. «Sono passate poco più di 24 ore da quando il piccolo Enea è stato lasciato nella “Culla per la vita”, 24 ore in cui è stato detto davvero di tutto, il più delle volte a sproposito», commenta Marco Griffini, presidente di AiBi. L’associazione gestisce una Culla per la vita, battezzata “La Chioccia”, a San Giuliano Milanese, nella frazione di Pedriano, in via dei Pioppi 4, facilmente raggiungibile dalle autostrade lombarde. È stata inaugurata nel dicembre 2015 e l’ha chiamata così un muratore che lavorava alla realizzazione del gabbiotto in cui si trova la culla: «Questa culla sarà come una chioccia per i neonati», disse.

«Da una parte c’è la vicenda personale di Enea, della mamma che lo ha partorito e, magari, anche di un papà di cui nessuno sa nulla. Una mamma che ha preso una decisione sicuramente difficilissima ma anche piena di altruismo e generosità: decidere di mettere al mondo un bambino che si ritiene di non essere in grado di mantenere e affidarlo a un luogo e delle persone che se ne prenderanno cura da subito, aprendogli la strada per una vita “normale”, come quella di ogni bambino che nasce. Questa parte della vicenda deve finire qui, perché è una scelta intima di una mamma e di chi le è più vicino», afferma Griffini. Ovvio che vicenda come questa ci interpellano sul se sia stato fatto tutto il possibile per aiutare questa donna, «ma sgombrando il campo che sia a priori una “sconfitta” della società il fatto che una mamma scelga di dare alla luce un figlio e di affidarlo a mani sicure, piuttosto che cercare in tutti i modi di aiutarla per “convincerla” a tenere il figlio con sé».

Se questa mamma non avesse potuto raggiungere la Culla per la Vita della Mangiagalli, dove avrebbe abbandonato suo figlio? Avere una rete di culle per la vita più estesa, aiuterebbe a salvare quei neonati che invece talvolta vengono abbandonati in luoghi e contesti inappropriati per la loro sicurezza? «Bastano circa 6 mila euro per approntare una Culla per la Vita, i costi non sarebbero un grosso problema. AiBi da tempo, sta lavorando a una proposta di legge per rendere obbligatoria l’istituzione di un Culla per la Vita in ogni comune. Certo tutto il clamore suscitato da questa storia non aiuterà le prossime mamme a valutare questa ipotesi. Se, invece, fosse perché questa pratica non è conosciuta da tutti, il problema sarebbe forse ancora più grave, ma nello stesso tempo più facilmente risolvibile con una campagna di comunicazione efficace e condivisa, se solo ce ne fosse la volontà», sottolinea Griffini.

Esiste un’alternativa, che è il parto in anonimato: madre e bambino ricevono tutta la necessaria assistenza sanitaria ma il nome della madre rimane segreto e nell’atto di nascita del bambino viene scritto “nato da donna che non consente di essere nominata”. Un’alternativa di cui non tutte le donne sono a conoscenza (c’è una fetta di popolazione a cui non arrivano molte delle informazioni che caratterizzano i nostri servizi di welfare e in tv passano pubblicità istituzionali di ogni tipo, ma nessuna sulla salvaguardia della vita dei neonati), che forse sconta anche un comprensibile e umano imbarazzo. Per di più alcune sentenze recenti vanno nella direzione di indebolire la garanzia di anonimato per quanto l’art. 28 della Legge 2001 n. 149 – che ha introdotto anche in Italia il diritto dell’adottato di accedere, a certe condizioni e con certe procedure, alle informazioni concernenti l’identità dei suoi genitori biologici – non consente l’accesso a tali informazioni se l’adottato non è stato riconosciuto alla nascita dalla madre naturale.

foto Unsplash

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