Le vecchie e nuove ondate che danno materia ai giornali e ci ossessionano, nel loro salire e scendere lasciano scoperto con la domanda di sicurezza, anche un altro umanissimo bisogno: quello di decifrare la realtà intorno, di capirne la complessità e il senso, in tutte le sue dimensioni. Tra amici si fatica a parlare d’altro, ma “non se ne esce”, come ormai si ripete.
Perché circostanze inedite come quelle di oggi richiedono un’intelligenza potenziata per poter essere interrogate e comprese in profondità. La sola intelligenza cerebrale non basta, sta mostrando la corda. Occorre richiamare in campo quella più snobbata, considerata la parente povera, forse perfino inutile e pericolosa: l’intelligenza emotiva.
I dizionari la descrivono come ciò che aiuta a rilevare le proprie emozioni, a gestirle, quindi a capire da dove vengono e dove vanno a infrangersi. È l’intelligenza che ci permette di riconoscere – con le nostre – anche le emozioni altrui, e di dare luogo a rapporti interpersonali di qualità. Ecco perché serve ora: ci sono tanti segnali che mostrano quanto facilmente finiamo sotto sequestro emotivo, ma non ce ne accorgiamo, proprio perché abbiamo perso confidenza nel trattare le emozioni più scomode.
Amore. Odio. Pace. Tre emozioni che tramano il testo della vita umana
V. Woolf
Allora come rianimare il mestiere dell’intelligenza emotiva, dopo anni in cui è stata parcheggiata in modo incosciente? Va recuperata con esercizi pratici, un po’ come si fa con i muscoli impigriti, iniziando – suggerisce chi l’ha studiata in modo scientifico – da un uso più accurato delle parole (rieccole, le parole, dove infine si atterra sempre): dovremmo reimparare a dare il nome giusto a quello che proviamo. Si può iniziare la mattina, prima di entrare in una giornata nuova e lette le notizie; proseguire a mezzogiorno, quando tutto ferve; e chiudere alla sera, quando il giorno vissuto lascia i suoi depositi.
I maestri di intelligenza emotiva invitano a tornare a chiedersi: come si chiama l’emozione che sto provando ora? Quale il nome corrispondente? Rabbia? O piuttosto delusione, sconforto, fastidio? Non sono sinonimi: ogni emozione specifica svela qualcosa di noi che la parte sapiens a volte neppure ammette, individua un modo di stare al mondo, di guardarlo. Quindi indica una strada.
Definire bene le emozioni è già governarle: si comincerà a spostare il focus del nostro sguardo, e a navigare i sentimenti intuendo da dove vengono e dove ci conducono. Allora pezzi di realtà risulteranno più chiari, manifesteranno in modo nuovo il loro senso, finalmente. Le stesse relazioni con gli altri ne ricaveranno vitalità nuova. E si dovrebbe contenere anche il rischio del sequestro da parte delle emozioni più intense, un rapimento che ha una straordinaria forza distruttiva: quando le emozioni (odio? Rabbia? Invidia? Oppressione?) ci montano dentro in modo smisurato, sanno spingerci a gesti e conflitti che rompono, rompono tutto. Fibre dentro di noi, fuori di noi, tutto quello che sta intorno alla deflagrazione resta ferito. Difficile poi rimettere insieme i pezzi.
Il sequestro emotivo vale al singolare, ma anche al plurale. Oggi è riconoscibile nei reportage sulle manifestazioni di quelle persone che rifiutano i dati della realtà, che si ribellano in modo irrazionale e poi finiscono nei reparti di rianimazione. Lì è così evidente, da far paura quasi, per le implicazioni che ha.
Perciò occorre tornare all’essenziale, alle sillabe, a quell’esercizio all’apparenza così banale e invece vitale: dare i nomi giusti alle cose, per noi e per gli altri, cominciando da quelle ospiti così intime e obliterate che sono le nostre emozioni.
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