Volontariato

Emergenza terremoto, quando la comunicazione è relazione

di Giulio Sensi

L’emergenza terremoto in Emilia Romagna non è solo una palestra di solidarietà, rappresenta anche un terreno di sperimentazione e innovazione nella comunicazione sociale.

Dice il presidente dell’Anpas Fausto Casini: “non ci siamo rivolti soprattutto ai media mainstream, l’informazione è passata attraverso la relazione interpersonale tra i volontari e gli accampati; come pure attraverso i social network con un servizio che aggiorna e spiega il fenomeno, anche ai bambini”. Ne parlo con Andrea Cardoni, bravo e curioso comunicatore Anpas. Da qualche mese, insieme ad altri dell’associazione, ha iniziato a sperimentare alcune forme di comunicazione più incisive e utili.

Andrea, proprio quando avevate tutti gli occhi addosso avete guardato in basso, alle relazioni, e non in alto, ai grandi media per far parlare di voi. Non è una scelta folle?
La scelta che abbiamo fatto è stata quella di creare noi stessi dei contenuti e abbiamo guardato dove c’era bisogno e dove la comunicazione poteva essere più utile, non dove convenzionalmente era già scritto, e quasi dovuto, che dovessimo comunicare. Abbiamo pensato prima all’utilità che poteva avere per la cittadinanza colpita dal terremoto. Don Luigi Ciotti dice che il volontario è un cittadino che fa la propria storia con gli altri. Ci siamo messi a disposizione delle storie delle persone che abbiamo incontrato, non solo montando tende o facendo servizi con l’ambulanza, anche con la comunicazione.

Avevate gli occhi dei grandi media puntati addosso, un’occasione unica per far parlare di voi.
Dal punto di vista dei media mainstream abbiamo cercato di non prestare il fianco alla comunicazione lacrimevole, autoreferenziale, cercando di evitare di incappare in tutti i difetti (ormai diventati “classici”) della comunicazione dell’emergenza e di quella del volontariato. Senza spocchia. Questo ci ha provocato anche delle critiche al nostro interno. Ma la sobrietà è nel codice genetico di un movimento che esiste da più di 150 anni e che si è fondato sulla lotta alla marginalizzazione. Peraltro all’interno dei media mainstream ci sono dei grandi professionisti che seguono i codici deontologici della professione. Ne abbiamo incontrati tanti con i quali abbiamo stretto relazioni significative e costruttive perché erano realmente interessati a fare qualcosa di buono per le storie che raccontavano.

Che atteggiamento avete avuto nei confronti dei tanti giornalisti che nel momento clou vi venivano a cercare?
Molto dipendeva dal momento in cui eravamo: nei giorni successivi alle scosse abbiamo avuto un viavai di telecamere, microfoni e macchine fotografiche che cercavano la notizia. Alcuni ci hanno chiesto esplicitamente se nel campo c’era una vecchina con la testa rotta, se si poteva vedere un bambino piccolo appena nato… In quel caso abbiamo cercato di ricondurli al loro codice deontologico. In alcuni casi siamo stati costretti ad affiancarli passo passo all’interno dei campi, cercando di evitare “storture”. “La storia non si ripete. Fa le rime”, diceva Mark Twain. Ecco: speriamo che l’Emilia non faccia la rima con L’Aquila, anche per com’è andata con la comunicazione. È già un mese, ormai, che è finito il viavai: staremo a vedere quello che succede. Non vorremmo tornare tra tre anni, come a L’Aquila, e vederci costretti a raccontare noi quello che l’informazione dimentica e che poi riscopre indignata.

Come è stata invece costruita la comunicazione orizzontale fra le vittime del terremoto e la rete di solidarietà che si è andata costruendo?
Abbiamo cercato soprattutto di ascoltare. Abbiamo ascoltato le parole di una popolazione che non era pronta a questa cosa. Una bassa percezione del rischio e l’elevata vulnerabilità che è stata riscontrata ex-post dagli antropologi l’abbiamo ascoltata nelle storie e nella paura che ancora c’è nelle persone. Quattro giorni dopo la prima scossa, una volta allestito il campo, in accordo con le autorità locali, abbiamo ascoltato le domande delle persone presenti al campo riguardanti il terremoto e abbiamo fatto dare delle risposte dal geofisico Marco Mucciarelli. Un incontro fondamentale per sfatare falsi miti e leggende che si rincorrevano subito dopo le prime scosse. E poi abbiamo ascoltato le parole e le esigenze in undici lingue diverse: per questo abbiamo cercato di far arrivare ai campi mediatori culturali e volontari che parlassero più lingue. Come dicevo prima, ci siamo messi a disposizione delle storie delle persone.

E avete puntato sulla produzione dei contenuti per innovare la comunicazione…
Abbiamo innovato con i social network raccontando da subito (alle 7 del 20 maggio) ciò che stava succedendo attraverso Instagram e twitter. Poi abbiamo realizzato alcuni video, artigianali, ma che sono stati utilizzati anche dai media mainstream. In particolare abbiamo raccontato il terremoto con dei video-tutorial girati con Marco Mucciarelli nelle zone colpite per spiegare gli effetti e il funzionamento del terremoto. Abbiamo fatto vedere cosa era veramente successo dando una spiegazione scientifica. In quel modo abbiamo cercato di sfatare i falsi miti di un immaginario di certo stratificato su un fenomeno che da sempre alimenta leggende. È stato un inizio che oggi conta un numero incredibile di visite per ognuno dei video che abbiamo realizzato, oltre all’apprezzamento degli esperti del settore. Dal punto di vista della diversificazione della comunicazione, abbiamo cercato quindi di fare comunicazione di pubblica utilità. Siamo stati tra i primi a promuovere tra i nostri volontari i gruppi di acquisto solidali per il parmigiano e i prodotti tipici. Contemporaneamente abbiamo raccolto storie dei nostri volontari che stiamo raccontando in vario modo (video, foto, audio). Nel frattempo, a distanza di un mese ci siamo accorti che le conversazioni che abbiamo avviato con Instagram ci sono servite per creare una piccola comunità virtuale che poi si è rivelata solidale nel mondo reale: i volontari della Croce Blu di San Prospero -colpita dal terremoto- che hanno preso parte alla community hanno raccontato le loro storie proprio su Instagram e in cambio hanno ricevuto donazioni e, soprattutto, iniziato nuove relazioni con altre associazioni di volontariato.

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