L’epica italiana dell’impresa sociale individua nell’azione collettiva il motore primo delle sue realizzazioni. L’inizio dei tempi coincide con la formazione di una collettività che diventa autocosciente nel momento in cui mutualizza i problemi e individua al proprio interno e presso interlocutori esterni le risorse per darvi risposta. Quella anglosassone si basa invece sulla figura dell’imprenditore solo al comando che trasferisce armi e bagagli – in termini di competenze – dall’area business a quella sociale generando poderosi fenomeni di ibridazione tra prospettive profit e nonprofit dagli esiti tutt’altro che scontati in termini di fertilizzazione incrociata. Visioni semplificate fin che si vuole, ma che alimentano uno storytelling forse un po’ spompato tra gli addetti ai lavori, ma che va ancora alla grande per tutti quelli, e sono molti, che si avvicinano da neofiti a questo settore.
Tutto sembra risolversi lungo l’asse bottom up vs top down. Ma mentre l’approccio top dow è in grande ascesa perché alimentato dal nuovo corso della filantropia che si fa sempre più capitalistica e orientata all’investimento piuttosto che alla redistribuzione, nel caso dell’azione collettiva dal basso le cose non sembrano funzionare come in passato. Quali sono “i movimenti” che fanno da brodo di coltura per nuove iniziative d’impresa sociale? L’elite del movimentismo anni ’70 è ormai stabilmente al governo e tra non molto potrà contribuire al rinnovamento, si fa per dire, dell’apparato gerontocratico. E dai movimenti degli anni più recenti – ’80 e inizio ’90 – c’è il rischio che non ne esca nulla perché, come sostengono gli osservatori dei fenomeni underground come Bertram Niessen, si è assistito a un esodo di massa. In altri termini la fuga di cervelli che tanto preoccupa l’oggi è in realtà in essere da tempo, per cui altri territori e contesti produttivi – capitalistici soprattutto – si sono accapparrati “la meglio gioventù” del movimentismo italiano, oggi più facilitata negli spostamenti e a suo agio in ambienti cosmopoliti. Risultato? Un fiume in secca per l’azione collettiva.
Forse però le cose non stanno in questo modo. Forse si può contare su una nuove specie di agitatori comunitari. No, non sono gli “agenti di sviluppo” dei progetti di coesione cofinanziati con i fondi strutturali frutto del razionalismo pianificatorio. Sono cani sciolti, soggetti border line perché non inquadrabili nella scacchiera delle appartenenze collettive, ma neanche riconducibili ai salotti del capitalismo sociale. Sono professionisti, microimprenditori, operatori sociali che proprio perché fuori dall’epica imperante dell’azione sociale sono più in grado di rompere e di cambiare le regole del gioco. Un paio di esempi che ho avuto modo di conoscere a un interessante seminario di Impossible Living e che rimbalzano parecchio sul web: il ri-animatore di Favara, paesone dell’agrigentino semi spopolato in vera e propria città smart vocata all’innovazione sociale sociale è un notaio. E lo spazio Grisù, un incubatore che ha riattivato uno spazio centrale di Ferrara senza altra destinazione d’uso se non un’impossibile alienazione per consentire al comune di far cassa, è gestito da un gruppo di professionisti e imprenditori locali. Ammetto di averli conosciuti velocemente e quindi il loro profilo antropologico andrebbe certamente approfondito, ma è rimasta l’impressione di avere a che fare con gente fuori dagli schemi non solo rispetto all’economia e al business tradizionale, ma anche ai modelli di azione collettiva fin qui più diffusi. A contare non è l’ideologia e il carisma, ma il carattere pragmatico della proposta che sa coalizzare attori diversi intorno alla realizzazione di un obiettivo ben definito. Con basse barriere all’accesso (e al recesso) e grande capacità di lavorare tra le linee della “società organizzata” che in molte sue articolazioni – non solo quelle della Pubblica Amministrazione – rappresenta più un ostacolo che una facilitazione all’innovazione sociale. Se poi si aggiunge il dettaglio anagrafico, cioè che spesso non fanno parte della tanto ricercata cerchia degli “under”, allora c’è di che indagare.
Ma non voglio farla lunga, ho davvero pochi elementi per valutare. Ci pensa invece Giorgio Gaber a riassumere il tutto in questa bella canzone dedicata proprio a loro, ai cani sciolti…
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