Mondo

Elezioni vicine e lontane

di Marco De Ponte

A due settimane dal voto italiano, fa bene spostarsi più in là del proprio ombelico e tentare qualche        riflessione sulle elezioni in Kenya. E non solo per qualche analogia con le cose di casa nostra: la crisi sociale che affligge il Paese, il tasso di disoccupazione giovanile alle stelle e il fatto che tra i candidati c’è uno degli uomini più ricchi  dell’intero continente africano (Kenyatta, secondo Forbes è al 23 posto) e la cui famiglia possiede un canale TV, quotidiani della carta stampata e diverse stazioni radio. Vale la pena di parlarne perché i keniani questo voto l’hanno sentito (oltre il 70% della popolazione è andata a votare), tanto che i nostri colleghi ci hanno raccontato delle code anche di sei ore di fronte alle urne e di orari di voto estesi oltre le 17 pomeridiane dello scorso lunedì.

La povertà in Kenya è alle stelle, 1 keniano su 5 vive con meno dell’equivalente di un euro al giorno. E il futuro Presidente, chiunque sia eletto (è di oggi la notizia del testa a testa tra Kenyatta e il suo rivale Odinga, e quindi del fatto che si andrà probabilmente al ballottaggio) dovrà fare i conti con questa povertà, con un Paese che mette faticosamente insieme oltre 40 gruppi etnici e linguistici, con la questione della proprietà della terra così sentita (e così irrisolta) come in molti Paesi africani, questione lasciata fuori anche dalla Costituzione e sulla quale ActionAid da tempo chiede una chiara e precisa roadmap, per consentire a tutte le comunità, anche le più marginalizzate di poter coltivare e vivere dei propri terreni.

Temi caldi ma “accantonati” nel corso della campagna elettorale (e anche su questo il pensiero vola a casa nostra) tutta concentrata su reciproche accuse, e sul timore dello scoppio di nuove violenze post voto, che nel 2007 provocarono oltre 1500 morti e 600.000 senza tetto. Ma anche temi con cui la nuova governance dovrà fare i conti evitando di ricorrere alla violenza come in passato, che rafforzata da una cultura dell’impunità  è stata usata come arma per “spostare” donne e uomini (attualmente sono ancora 100.000 gli sfollati nel Paese) e quindi voti.


Nonostante le nubi offuschino anche questo voto, primo tra tutti il fatto che due dei candidati a Presidente sono accusati di crimini contro l’umanità dalla Corte Penale Internazionale (ICC) per gli scontri violenti seguiti alle elezioni del 2007, c’è grande aspettativa. Perché con le nuove regole che i keniani stessi hanno voluto votando il referendum nel 2010 ad ampia maggioranza, si avrà un decentramento dei poteri presidenziali e una nuova struttura: infatti si è votato lunedì – oltre che per scegliere il Presidente – anche per i governatori di contee (47), senatori in Parlamento (47), i rappresentanti di assemblee locali (1450) e rappresentanti per contee di donne.

Queste elezioni sono molto importanti anche per i diritti delle donne. Anzi per usare le parole del mio

collega Tennyson Williams (Country Director) si tratta di “elezioni storiche che fanno intravedere una nuova alba per le donne keniane”.Per la prima volta infatti si e’ votata una rappresentante donna per ogni Contea, in tutto 47 seggi. Ma la battaglia per la maggiore rappresentatività delle donne in posizione di leadership è ancora lunga. Su questo si sono concentrati gli sforzi di ActionAid (presente nel Paese dal 1972), che hanno portato avanti una campagna di casa in casa, di villaggio in villaggio, di regione in regione, insieme a 200 donne di ogni schieramento politico, per una maggiore partecipazione e rappresentanza delle donne  vita pubblica e politica del Paese e perché le donne siano presenti a più livelli delle istituzioni.

Foto: Jakob Dall/ActionAid

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