Mondo

Elephant, un giorno un po’ così a Columbine

Recensione del film "Elephant" di Gus Van Sant.

di Giuseppe Frangi

Ore 11,30. Tutto è tranquillo al liceo Columbine, Littleton, Colorado. Non cercate indizi di quel che sta per accadere, non ne trovereste. È stato davvero grande Gus Van Sant, il regista di Elephant, film con cui ha sbancato l?ultimo festival di Cannes, a calarsi nell?assoluta normalità che precedette l?assurda strage del 20 aprile 1999. Il suo punto di vista è lo stesso dei ragazzi. La cinepresa viaggia alla loro altezza, cammina con loro, scruta, ascolta, s?annoia, sospira. Non c?è pretesa di spiegare, e il titolo del film, del tutto casuale, e fuori contesto, è lì a testimoniarlo. Van Sant ha un solo obiettivo, e straordinariamente poetico: rivivere questa lacerazione assurda, improvvisa, sanguinosa del tessuto della normalità. E nella normalità è difficile distinguere, anche un attimo prima, chi tra Joseph, Elias, Michelle, Nathan, Carrie o tutti gli altri ragazzi del Columbine sia quello pronto a realizzare la carneficina. Solo i cieli, spazzati da un vento inquieto, e via via più densi di nubi nere, avvertono quel che sta per accadere. Per questo la cinepresa li scruta, con struggimento, quasi cercasse di trovare un perché alla misteriosa potenza del male. Ma l?unica risposta risuona oltre quegli insondabili orizzonti.


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