Famiglia

Ehi, c’è posta per lui

Esclusiva. Una giornalista di VITA ha conservato le staminali di suo figlio. Un diario completo, quasi un giallo. "C'è un imbucato in sala parto...". Su VITA in edicola

di Carlotta Jesi

Carlotta Jesi, autrice di questo diario, è una giornalista di Vita. Da poco è nato il suo secondo bimbo, Filippo. Carlotta aveva il rammarico di non aver donato il cordone del primo figlio, ma il sistema delle banche pubbliche le ha dato solo delle non-risposte. Di quanti cordoni c?è bisogno in Italia? Quanti vengono utilizzati per trapianti? Che ricerche sono in atto? Nessuno le ha risposto, e alla fine lei ha scelto di tenerlo per i suoi bambini. Sperando che non serva mai. Ha scelto la ?crioconservazione per uso autologo? del sangue del cordone ombelicale: ha pagato 2mila euro e spedito il sangue cordonale in una banca inglese, dove lo terranno per vent?anni. Perché? Perché il sangue cordonale contiene cellule staminali e conservarle potrebbe rivelarsi, in un futuro non lontano, un?assicurazione sulla vita. Per farlo serve un nulla osta del ministero della Sanità: in Italia conservarlo per sé è vietato, si può solo donarlo.

C?è un imbucato in sala parto. Gli passo accanto, un po? nervosa, la mattina del mio taglio cesareo: nell?area riservata a nonni, zii e cugini in attesa del loro neonato, spicca la pettorina colorata di un corriere Dhl. Anche lui in attesa: di un kit farcito di cellule staminali prelevate dal cordone ombelicale che unisce i neonati alla loro mamma. Bimbo e kit escono insieme dalla sala parto, in braccio a papà con la faccia tirata che mostrano il primo ai parenti e affidano il secondo a uno sconosciuto perché lo carichi su un aereo il più in fretta possibile e lo spedisca all?estero, dove verrà congelato. Per 20 anni. Per 2mila euro. Per il bambino che a quel cordone ombelicale era attaccato o per i suoi fratelli. Nel caso si ammalino, incrociando le dita che non succeda mai. Tecnicamente si chiama «crioconservazione per uso autologo». E sto per farla anch?io. Anche se in Italia, in teoria, è vietata.

Chi arriva?
Dall?esterno, sembra una 24ore, di cartone, questo kit. Leggerissimo. Mio marito, che non può assistere all?operazione, lo appoggia ai piedi del lettino su cui scivolo verso la sala dell?anestesista. «Dentro c?è la sacca per prelevare il sangue, con le istruzioni», spiega e rispiega all?ostetrica che mi prende in consegna. «Dentro c?è il kit», le ripeto io mentre mi fascia le gambe strette con una benda per evitare trombosi. «E si usa così e così», cantileno al ginecologo e all?anestesista. Finché qualcuno mi interrompe, chiedendo: chi arriva? E all?improvviso, pronunciando il nome che abbiamo scelto per nostro figlio, Filippo, realizzo quanto è assurda tutta questa faccenda. Quanto è folle preoccuparmi di un kit salvavita per un bimbo che non è ancora venuto al mondo. Che non ho ancora visto in faccia, annusato e sentito piangere. Penso alla poca poesia. E un po? anche alla contraddizione: com?è che abbiamo detto no all?amniocentesi, pensando di poter accogliere anche un figlio malato, e adesso siamo qui a mettergli le cellule staminali in cassetta di sicurezza?

Tutta colpa di Ambra
A mettermi la pulce nell?orecchio è stata Ambra Angiolini, in un?intervista: era incinta e decisa a depositare le staminali del suo cordone in Svizzera. «Roba da star dei Telegatti», scherzo per settimane, insieme a mio marito, leggendo il gossip che racconta che in Svizzera ha portato le sue cellule pure mamma Panicucci. Per scrupolo, chiediamo al ginecologo. E la risposta è secca: «Ormai lo fanno quasi tutti. Anche se scientificamente non ci sono prove che queste cellule possano davvero salvare un bambino». Quasi tutti quelli con 2mila euro che avanzano, pensiamo uscendo dal suo studio. È una moda, concludiamo. Ma un po? di dubbio resta: e se, da qui a vent?anni, con quelle cellule potessero davvero salvarti la vita? Il nostro treno passa adesso?

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