Politica
Educatori, una laurea non basta
Giovanni Valle, direttore didattico della sezione Don Gnocchi del Corso di laurea in Educazione Professionale dell’Università Statale di Milano, replica alla proposta di legge in discussione alla Camera, che riconoscerebbe agli educatori che escono da Scienze dell'educazione il titolo professionale: «ci si accontenta di dire che la formazione deve essere di livello universitario, ma non ci si interroga sulla qualità della formazione».
In Commissione VII della Camera è in discussione una proposta di legge che disciplina per la prima volta la professione di educatore: si parla di almeno 100mila educatori attivi, di cui 31mila educatori professionali, laureati sotto la facoltà di Medicina e il rimanente formatosi sotto Scienze dell’educazione. Una forbice numerica dovuta al fatto che i 14 corsi di laurea in Educazione Professionale d’Italia sono a numero chiuso: a Milano ad esempio sono 80 posti ogni anno. «Si tratta di ridefinire le due figure e dare a ciascuna un preciso ambito di azione», aveva spiegato Milena Santerini (Demos-CD), relatrice in Commissione VII della Camera. Secondo la proposta, chi esce da Scienze dell’educazione, ora “educatore”, si chiamerebbe “educatore professionale” e opererà nei servizi e nei presidi socio-educativi, socio-assistenziali e socio-sanitari. L’“educatore professionale” che esce dalla facoltà di Medicina, invece si chiamerà “educatore professionale sanitario” e opererà nei servizi e nei presidi sanitari e in quelli socio-sanitari.
La proposta però non convince per nulla gli educatori professionali. Abbiamo incontrato Giovanni Valle, direttore didattico della sezione Don Gnocchi del Corso di laurea in Educazione Professionale dell’Università Statale di Milano, che conta 235 studenti per questo anno accademico e 536 laureati dalla sua nascita, nel 2001/02: il primo in Italia. Alle sue spalle c’è la consolidata esperienza dei corsi regionali, che con varie declinazioni esistevano fin dagli anni Sessanta.
«Un profilo professionale per l’educatore esiste già, benché questa proposta di legge non lo richiami neppure, ed è quello definito dal decreto ministeriale 520 del 1998, decreto che tra l’altro prevede già che la formazione andrebbe fatta di concerto tra le facoltà di medicina e quelle di scienze dell’educazione. L’educatore è un operatore sociale e sanitario, non è stretto sul sanitario: questo è un profilo professionale pronto per lavorare tanto nell’ambito socioeducativo, quanto in quello sociosanitario e sanitario. Il nostro è un operatore può lavorare in tutti gli ambiti, tant’è che diversi laureati in scienze dell’educazione si iscrivono al nostro corso di laurea per completare la loro formazione», spiega Valle.
Le criticità presenti nel testo della legge e le modifiche richieste sono state inviate nelle sedi opportune sia dagli educatori professionali, tramite la loro associazione ANEP, sia dal coordinamento nazionale dei presidenti dei corsi di laurea in educazione professionale (entrambi i documenti in allegato): «la proposta di legge in questione appare nettamente sbilanciata a favore della formazione dell'educatore “tuttologo” presso L.19 a scapito di quella di SNT2», hanno denunciato. Alcune di queste richieste sono state trasformate in emendamenti da parte della senatrice Paola Binetti, che ha chiesto che il nome di educatori professionali resti ai laureati sotto la facoltà di Medicina, che dovrebbero poter continuare a lavorare in tutti gli ambiti, mentre un nome nuovo andrebbe agli altri educatori, quelli di Scienze dell’educazione, che si chiamerebbero “educatori socioculturali”.
Un profilo professionale per l’educatore esiste già, benché questa proposta di legge non lo richiami neppure, ed è quello definito dal decreto ministeriale 520 del 1998. L’educatore è un operatore sociale e sanitario, il nostro è un operatore pronto per lavorare in tutti gli ambiti
Giovanni Valle
Per Valle però non è una questione di rivendicazioni sindacali, quanto di capire quale formazione stiamo andando a prevedere per una figura professionale tanto delicata, di cui ci sarà sempre più bisogno. «La nostra formazione è orientata alla preparazione professionale, tant’è che diamo un’abilitazione che consente l’esercizio della professione. Questo perché alle spalle c’è un impianto formativo con caratteristiche professionalizzanti: il numero chiuso e programmato, 80 all’anno nel nostro caso; la frequenza obbligatoria, per almeno 75% delle ore; un tirocinio di almeno 60 CFU, che sono 1.500 ore nei tre anni, di cui 250 ore di accompagnamento formativo, settimanale, per analizzare con un tutor l’esperienza fatta», snocciola Valle.
Questo è un lavoro che si impara facendolo, però facendolo in modo guidato. Il presupposto che prima studi e dopo fai, in questo lavoro non sta in piedi.
Giovanni Valle
La «differenza» rispetto a Scienze dell’educazione è netta: «noi prepariamo professionisti, loro danno un’istruzione pedagogica, non ci sono requisiti formativi. Studiare e fare esperienza sono due cose diverse, per noi è assolutamente rilevante la connessione tra teoria e pratica». Che competenze servono per lavorare nei servizi alla persona? Come si costruiscono? Sono queste per Valle le domande da cui una legge in materia – pur necessaria – dovrebbe partire: «Io credo che la competenze relazionali si costruiscano attraverso la formazione e la formazione ha caratteristiche irrinunciabili, non basta studiare sui libri, serve fare esperienza e confrontarsi con chi è più esperto sull’esperienza che si fa. Questo è un lavoro che si impara facendolo, però facendolo in modo guidato. Il presupposto che prima studi e dopo fai, in questo lavoro non sta in piedi. In questa legge ci si accontenta di dire che la formazione deve essere di livello universitario, ma non ci si interroga sulla qualità della formazione».
Qual è la mediazione, se è vero come è vero che numericamente i servizi sono sostenuti concretamente in gran parte da persone formate in Scienze dell’educazione? «È ovvio che per non pregiudicare i servizi sia necessario arrivare a un riconoscimento dei titoli, non sto dicendo questo. Però posto che si deve fare una sanatoria, questa la si può fare in molti modi, quello che è previsto oggi mi sembra troppo poco, mi sembra ci sia un favor eccessivo per loro e al contrario una marginalizzazione di una figura professionale normata per legge».
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