Welfare
Educatori professionali, un corpo diviso a metà
La pandemia ha, tra le altre cose, posto nuovamente in evidenza l’importanza e insieme la fragilità delle professioni educative e pedagogiche. In questa estate ancora segnata dalle preoccupazioni sembra avvicinarsi il tanto atteso tempo della definizione del profilo dell'educatore professionale. Sapranno le istituzioni preposte superare quella cortina di resistenze corporative che sino ad oggi ha impedito di giungere ad un quadro chiaro e definito, capace di dare al nostro welfare figure educative e pedagogiche solide e valorizzate?
In questa estate ancora segnata dalle preoccupazioni e dai traumi generati dalla pandemia, sembra avvicinarsi il tanto atteso tempo della definizione del profilo dell'educatore professionale. L’emergenza ha, tra le altre cose, posto nuovamente in evidenza l’importanza e insieme la fragilità delle professioni educative e pedagogiche. A testimonianza di ciò vogliamo segnalare come durante l’epidemia da Covid19 che ha colpito tutta l'architettura dei servizi alla persona entrambi i profili (in tutti i presidi sociali, sanitari, socio educativi e della salute) abbiano ottemperato con difficoltà e con tutti gli strumenti possibili, a distanza e nel rispetto delle indicazioni sanitarie, attrezzandosi con i DPI, per non far mancare il lavoro educativo dell'avere cura delle persone prese in carico.
Delle criticità collegate al dualismo dei profili e della relativa proposta di profilo unico volta a superarle si è discusso in una recente diretta Facebook promossa dalla CGIL-Funzione Pubblica dal titolo “Educatori. Tra caos normativo e diritti negati", iziativa alla quale siamo intervenuti e che è ora visibile in streaming. In questa occasione la nostra associazione ha registrato, anzi ha avuto forte conferma, della convergenza con il principale sindacato di settore sull’esigenza di giungere presto ad una legge quadro sulle professioni educative che preveda finalmente la individuazione di un profilo unico di educatore.
Contestualmente abbiamo rilanciato la petizione promossa nei primi mesi del 2020 e poi accantonata per occuparci del sostegno alle colleghe ed ai colleghi durante la emergenza sanitaria. Uno dei punti qualificanti della petizione ancora in corso è appunto l’istituzione di un profilo unico di educatore, sul modello di social educator prevalente in Europa (la petizione ha ad oggi raccolto circa 4.900 adesioni ed è in continua crescita). Pretendiamo un profilo adeguato a rispondere alle domande di una società velocemente trasformata e che integri – in un nuovo corso accademico – il meglio dei percorsi esistenti e passati (pensiamo ad esempio anche alla esperienza delle vecchie scuole regionali interconnesse ai servizi territoriali), con un occhio particolare alle altre realtà europee.
L'individuazione di un nuovo profilo unico di educatore vedrebbe automaticamente equipollenti senza oneri formativi gli attuali educatori professionali sociopedagogici e sociosanitari e risolverebbe in un solo colpo le problematiche dei lavoratori del settore sottoposti oggi ad un assurdo risiko sugli ambiti di lavoro, che sta generando accreditamenti differenziati a livello regionale. La Regione Veneto ad esempio con una recente delibera contestata da una lettera unitaria dei Mille di altre tre associazioni (APP, Conped, Uniped), mette a rischio la presenza degli educatori professionali sociopedagogici e dei pedagogisti in ambiti dove è prezioso il loro contributo (come, ad esempio, le comunità psichiatriche). Stessi problemi incontrano spesso gli educatori professionali sociosanitari sul versante scolastico e sociale: sebbene l’attuale normativa (seppur per molti versi confusa e contraddittoria) contempli la compresenza nei diversi ambiti dei due profili di educatore e la valorizzazione della figura del pedagogista, sovente ciò non accade nella realtà materiale dei servizi. Il mercato è stato forzato ad orientarsi su ambiti differenziati, anche sotto la influenza di informazioni inesatte e confusive circolate negli ultimi mesi, alle quali si è però allineato con colpevole superficialità. Un mercato che vede tutt’ora le professioni educative bistrattate, con condizioni salariali e contrattuali (ricordiamo che il livello formativo dell'EP è la laurea triennale e quello del pedagogista quello magistrale quinquennale) inadeguate: sottoposte a fenomeni inaccettabili come le notti passive, la cattiva gestione dei part-time misti, carichi di lavoro eccessivi, frequente carenza di supervisione e prevenzione del burnout.
Sapranno le istituzioni preposte superare quella cortina di resistenze corporative che sino ad oggi ha impedito di giungere ad un quadro chiaro e definito, capace di dare al nostro welfare figure educative e pedagogiche solide e valorizzate? Si riuscirà finalmente fornire alle colleghe e ai colleghi, così come agli enti gestori e alle utenze quelle certezze che oggi appaiono un miraggio?
Noi “Mille" a questo dibattito contribuiremo e lavoreremo per quegli obiettivi e chiediamo sin da subito che siano incluse nelle sedi di confronto le rappresentanze del mondo del lavoro, perché è assolutamente indispensabile che la discussione parta dalle esigenze materiali del lavoro sociale ed educativo e non si esaurisca su equilibri interni ai poli accademici o all'associazionismo professionale ed ordinistico. Ecco perché individuiamo entrambi i profili di Educatore Socio Pedagogico e Educatore socio-Sanitario (e il pedagogista stesso) all'interno di una cornice di senso unitaria di promozione della salute globale e del benessere sociale e relazionale degli individui e delle comunità.
Diciamo subito che noi “Mille" riteniamo da sempre che gli EP sociopedagogici e sociosanitari compresenti nei servizi facciano sostanzialmente le stesse cose e svolgano “materialmente” la stessa professione. Ragionando dunque sulle competenze e sulle evidenze che ci giungono dalla realtà, riteniamo artificioso il dettagliare delle distinzioni per giustificare riserve professionali nell'uno e nell'altro campo. Pensiamo che il “dualismo" dei profili corrisponda esclusivamente a stratificazioni normative, talune decisamente disattese, come relativamente al decreto ministeriale 8 ottobre 1998, n. 520 (22 anni ad oggi) per il quale possiamo con certezza assoluta affermare che l'integrazione di saperi tra i poli formativi richiamato dall’ art. 3 sia sostanzialmente rimasta irrealizzata, salvo in alcune rare eccezioni.
Ai nostri occhi appare poi evidente che l’introduzione di un albo professionale per uno solo dei due profili abbia forzato artificiosamente questa necessità di distinzione: forzatura che avviene non perché ci siano davvero differenze significative nella pratica professionale, ma perché è esigenza dell’albo stesso (e non della professione!) definire un “territorio operativo” che sia esclusivo del profilo ordinistico.
Siamo convinti che questo dualismo non trovi giustificazione nella realtà dei contesti di lavoro, dove la professione di educatore è unica ed è connotata da prassi comuni, caratterizzata da un “fare quotidiano" che non registra reali differenze nei professionisti che provengono dai due distinti filoni formativi. Ciò appare in tutta la sua evidenza nei territori dove sono presenti entrambi i poli formativi: colleghi con formazioni differenti si confrontano ed arricchiscono a vicenda, co-costruiscono le pratiche operative e si riconoscono in un corpus comune con facilità, vien quasi da dire con naturalezza. Ma lo stesso processo avviene anche quando ci si apre senza pregiudizio a realtà diverse, dove la formazione di base avviene con netta prevalenza presso uno solo dei due poli (ricordiamo che in Italia ci sono 14 corsi SNT/2 e 50 corsi L19, con distribuzione disomogenea sul territorio nazionale): quando il confronto è sulle pratiche e non sulle letture aprioristiche, le distinzioni diventano in breve irrilevanti. Poiché la “competenza professionale” non si esaurisce nel padroneggiare una determinata tecnica o nell’avere conoscenze specifiche in una determinata disciplina teorica, ma consiste fondamentalmente nel saper discernere, nella pratica, a quali contributi tecnici teorici o esperienziali attingere nelle singole situazioni. In questo senso, permangono differenze solo in merito a scelte operative, in conseguenza dell’orientamento teorico-pratico individuale e/o delle scuole di pensiero cui si fa riferimento, più che della formazione di base, così come – per fare un esempio banale – a fronte della stessa patologia si potrà trovare un medico che opta per un intervento chirurgico ed un altro che preferisce invece un approccio farmacologico conservativo, ma nessuno al mondo si sognerebbe di dire che quei due medici devono provenire da corsi universitari diversi.
In ultima analisi, questa distinzione di competenze appare artificiosa e posticcia anche dal punto di vista epistemologico. Separare l'educativo dal riabilitativo appare una logica da “manuale Cencelli" non supportata da un adeguato bagaglio teorico. Abbiamo in ambito accademico umanistico potuto apprezzare analisi teoriche sulla “diagnosi” e “cura" di taglio educativo. Nella stessa definizione declinata nell'ICF (International Classification of Functioning, Disability and Health) si esplicita come in fase preventiva e operativa riguardo ad una temporanea o consolidata “carenza di salute” oltre agli approcci di tipo sanitario e clinico, influenzino un ruolo non secondario fattori personali, ambientali, dunque sociali ed ambientali nel “riportare ad esso lo stato di salute”.
Questo significa che aspetti socio educativi sono elementi condizionanti nel processo di restituzione dello stato di salute dell'individuo e questo non è sindacabile. Esistono dunque pratiche di "diagnosi”, “cura" e "riabilitazione" fondate su presupposti teorici pedagogici, educativi e di clinica della formazione; dunque, non di taglio medico o sanitario. Così come il termine “rieducazione” viene utilizzato in ambito clinico e medico per identificare terapie funzionali, il termine “riabilitazione" è utilizzato in ambito sociale con accezioni diverse da quelle della professione sanitaria. Se per “riabilitazione” intendiamo, specialmente nel settore delle disabilità, «l’insieme delle conoscenze, degli studi e dei provvedimenti rieducativi, terapeutici, protesici, rivolti a realizzare la riabilitazione dei soggetti comunque menomati», occorre ricordare che è tale “scientificità operativa” è propria e non esclusiva di diverse professionalità. Tra queste occorre citare l'azione dei docenti di sostegno che – seppur non appartenenti all'area sanitaria – si occupano di abilitazioni e di generare autonomie sociali ed emotive. Il lavoro educativo è di per se stesso volto a generare, mantenere, recuperare o rafforzare delle abilità: sociali, occupazionali, relazionali, cognitive… potremmo continuare all'infinito.
Ci sentiamo di sottolineare inoltre che il compimento di uno o più atti propri dell’esercizio di una professione è riservato/i esclusivamente all'attività professionale, la cui violazione costituisce il fatto tipico del reato di cui all'articolo 348 del Codice Penale. Ma esiste un emisfero di atti definiti tipici che pur essendo parte del bagaglio metodologico della professione, sebbene caratteristici di una prestazione professionale, possono essere compiuti da professioni diverse e quindi non rientrano nelle previsioni dell’articolo 348 del Codice Penale.
Le pratiche riabilitative, che da sempre appartengono anche al campo pedagogico ed umanistico, non possono essere certo disgiunte dalle mansioni "educative" pena invalidare la stessa funzione educativa e ridurla ad altro, animazione, intrattenimento, non si sa che. Se si dovesse – a nostro avviso incautamente e dannosamente – perseguire delle riserve sulle funzioni "riabilitative", necessariamente il campo andrebbe ristretto a quelle in cui si evince una netta dimensione tipica della professione sanitaria. E ciò, riferito alla figura dell'educatore, appare un paradosso perché le sue radici epistemologiche, come abbiamo detto, affondano altrove.
Ciò significa che occorre includere nella discussione anche il sapere ermeneutico e il pensiero scientifico dei grandi della Clinica della Formazione, pedagogisti Italiani come Riccardo Massa, la cui rilettura può favorire la comprensione di un approccio educativo e pedagogico all'avere cura. In sintonia con un concetto di salute, come prima ricordato, contenuto a livello mondiale dall'OMS attraverso l'ICF. Registrando dunque che la "riabilitazione” anch’essa materia ed “ambito di applicazione” delle professioni educative. Materia non propria ed esclusiva, sebbene "tipica".
D'altronde da sempre l'ambito penitenziario è quello in cui la figura dell'educatore e del pedagogista è più legata alla formazione sotto scienze dell'educazione. E qualcuno ci deve spiegare cosa ci sia di più “riabilitativo" di un intervento educativo in ambito carcerario. Noi “Mille” siamo per la compresenza e la armonizzazione dei profili di EP sociosanitario e sociopedagogico in ogni ambito.
Difendiamo la presenza degli SNT2 in ambito sociale e scolastico e ne proponiamo la estensione in ambito penitenziario. Allo stesso tempo ci opponiamo alla esclusione degli EP sociopedagogici dagli ambiti sociosanitari e sanitari. Ne difendiamo la presenza a pieno titolo e riteniamo che quel "limitatamente alle competenze socio educative" non vada interpretato in funzione riduttiva e strumentale. Come sopra ricordavamo, funzioni abilitative e riabilitative sono implicite nella educazione. La stessa radice etimologica del termine riabilitare rimanda a una plurisignificanza di accezioni. Occorre superare di slancio queste criticità date dal dualismo dei filoni formativi e dei profili ed investire la politica del compito che le spetta: ovvero giungere finalmente ad una legge quadro organica di riordino sulle professioni educative. È necessario che si crei un percorso condiviso che porti a questo traguardo.
Abbiamo in un breve lavoro di ricerca in ambito applicativo professionale rilevato atti tipici che appartengono ad entrambi i profili di educatore, generando di fatto una quasi totale sovrapposizione. Occorre riconoscere questo dato materiale, a fondamento della esigenza di giungere ad un profilo unico. Nel frattempo, è urgente registrare quanto sopra evidenziato, attraverso accreditamenti regionali omogenei che prevedano la compresenza in ogni settore dei due profili di educatore e la armonizzazione di saperi ed interventi. È il caso di ricordare che la Conferenza delle Regioni e delle Provincie Autonome, nel documento “Indagine conoscitiva per la ridefinizione dei profili e degli ambiti occupazionali delle figure di Educatori e Pedagogisti” del 17/4/2019 ha chiaramente espresso il proprio parere a favore della unificazione dei profili. Va poi ribadito fortemente quanto espresso dal comma 517 della Legge di Bilancio 2019 dove si declina la presenza della figura del pedagogista e dell'educatore professionale socio pedagogico nei presidi sociosanitari e della salute. La compresenza ed armonizzazione dei due profili non è dunque un approdo finale, ma un passaggio oggi necessario e propedeutico alla riflessione attorno ad un futuro profilo unico.
Rispetto al profilo unico intendiamo smentire infondate allusioni alla “medicalizzazione” e “sanitarizzazione” della categoria, prodotte da una nota associazione che ha connotato questa futura figura come “l'educatore misto”. Pensando di sminuirne la credibilità, ne ha in realtà rafforzato l’esigenza. Perché la figura di educatore necessariamente deve avere il suo cuore e baricentro nel sapere umanistico e pedagogico, ma senza scadere nel classicismo. Deve avere certamente competenze riabilitative e psicologiche, ma senza farsi “stringere" nel perimetro delle professioni sanitarie. Poiché il fatto che la definizione adottata dall’OMS ormai più di 60 anni fa definisca la salute come “uno stato di completo benessere fisico, sociale e mentale, e non soltanto l’assenza di malattia o di infermità” non significa affatto allargare il campo d’azione del sapere medico, ma all’opposto, significa che la salute travalica abbondantemente i confini del perimetro sanitario, ed include in maniera esplicita altri approcci, altri saperi, altre competenze. Tra le quali, quelle di radice sociale e pedagogica. Ad ulteriore conferma di ciò, evidenziamo ancora una volta come recentemente il nostro Parlamento abbia definito i servizi sociali “servizi pubblici essenziali”, al pari di quelli sanitari.
Occorre quindi pensare a dispositivi formativi multidisciplinari e complessi, dove la esperienza sul campo e la riflessione teorica attorno ad essa connotano sia la formazione base degli operatori, che l’aggiornamento professionale lungo l'arco della vita lavorativa. E qui si concreta anche la importanza di inserire e valorizzare nei medesimi settori di lavoro anche la figura del pedagogista, figura specialistica di secondo livello dell’agire educativo.
Oggi la formazione dell’EP appare consistere da una parte in una preparazione teorica umanistica scollegata dalla realtà dei servizi e dall’altra in un ipertecnicismo di stampo sanitario poco avvezzo alla riflessione critica: è evidente che ci troviamo di fronte a due formazioni monche. Né appare convincente l’ipotesi, più volte emersa, di “percorsi compensativi” tra i due profili, poiché questi percorsi risulterebbero banalmente un “lasciapassare” per il campo avverso, senza in realtà intaccare minimamente le debolezze dell’uno e dell’altro. E rimarrebbe irrisolta la questione dello specialista di secondo livello, che allo stato attuale esaspera le distanze e forma professionisti quasi incompatibili.
Sappiamo invece quanto sia importante, per svolgere al meglio il nostro lavoro, partire da una formazione di base che definisca in maniera chiara un quadro teorico di riferimento ma che sappia anche valorizzare l’apprendimento dall’esperienza, senza il quale una serie di costrutti teorici tipici della professione non possono assumere un significato reale. Pensiamo, ad esempio, alla relazione educativa o alla stessa progettazione, due elementi cardine nelle competenze di entrambi i profili. La loro descrizione e conoscenza a livello teorico è fondamentale, ma non si può davvero apprenderne il senso se non attraverso la sperimentazione diretta, e la riflessione guidata su quanto esperito. Allo stesso modo, l’agire pratico, se non accompagnato da una riflessione che gli fornisca supporto teorico, diventa sterile ripetizione di procedure meccaniche. Né l’uno né l’altro approccio sono sufficienti, servono entrambi e con uguale dignità e importanza. Non si tratta dunque di stabilire quali siano le conoscenze “giuste” per il buon educatore: un percorso che si proponesse di fornire tutte le conoscenze necessarie per tutti gli ambiti, siano esse di ordine teorico o di ordine pratico, necessiterebbe di ben più di tre anni. E probabilmente, una volta portato a termine, sarebbe già obsoleto… Piuttosto, si tratta di costruire un percorso equilibrato, che sappia formare un professionista capace di portare un determinato approccio, unico e originale, dentro contesti diversi, siano essi la scuola o il reparto ospedaliero, poiché è l’approccio che definisce il professionista, non la tecnica che utilizza o il contesto in cui opera. E questo approccio, piaccia o no, è quello dell’educazione, e non quello sanitario, che appartiene ad altre professioni.
Per tutto quanto detto finora ci sta stretta e contestiamo la collocazione delle professioni educative in ambito sanitario. Per questo non ci sentiamo due oggetti distinti ma un corpo unico, artificiosamente separato. Per questo ci sta stretta l’idea del pedagogista come “altro da noi” e lo vediamo invece come possibile crescita e specializzazione. Per questo dichiariamo ancora una volta, con forza, che il nostro campo di sapere è quello dell’educazione e della pedagogia e rivendichiamo con convinzione la nostra capacità di agire indistintamente in tutti gli ambiti.
Andrea Rossi, Presidente Nazionale Associazione MILLE
Fabio Ruta, Vicepresidente Nazionale Associazione MILLE
Fabio Sestu, Referente Associazione MILLE per la Sardegna
Nessuno ti regala niente, noi sì
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