Welfare
Educatori, perché sono introvabili?
Perché gli educatori sono introvabili? Intervista a Renato Riposati, presidente della Commissione d’Albo nazionale Educatori professionali
Tutti li vogliono, tutti li cercano, sia nel pubblico che nel Terzo settore. Ma nessuno riesce a trovarli, se non a fatica. Parliamo degli educatori professionali, uno dei profili più centrali delle professioni di aiuto. Gli educatori sono impegnati infatti nella tutela dei minori, dei migranti, dei senza dimora, degli anziani, delle persone con disabilità. Per non parlare dell’ambito penitenziario e scolastico. L’emergenza educatori è complicata dalla presenza di due percorsi di studio. Uno per l’educatore con formazione e abilitazione socio-sanitaria (classe di laurea Snt2) presso la facoltà di Medicina e un secondo percorso per l’educatore socio-pedagogico (classe di laurea L19) iscritto a Scienze dell’Educazione. Una spaccatura che provoca incertezze applicative e abusivismi. VITA ne parlato con Renato Riposati, presidente della Commissione d’Albo nazionale Educatori professionali (28mila iscritti), uno dei 19 ordini delle professioni sanitarie istituiti nel 2018.
Perché è così difficile reclutare gli educatori?
Non si trovano educatori professionali, da qualsiasi percorso formativo provengano, nonostante le università ne laureino annualmente in cospicua – ma non sufficiente per quanto ci riguarda – quantità. Non si capisce però perché se sul mercato ci sono diverse migliaia di educatori questi poi non si presentino alle procedure di reclutamento. O forse, anzi, le doglianze espresse dai colleghi sulle chat dei social, nei blog professionali, negli articoli delle riviste di settore o dei quotidiani online, nelle petizioni e assemblee spontanee, ce lo dicono fin troppo bene. Forse perché la professione sta perdendo appeal? Forse perché i contratti proposti sono contratti che non hanno le caratteristiche minime che soddisfano la richiesta di un lavoratore oggi: continuità, entità dello stipendio, compatibilità con la vita privata? Forse perché si è affievolita la dimensione vocazionale e sembra tramontata la stagione ideologico-politica che aveva favorito la scelta di intraprendere determinate professioni? Registriamo inoltre bassi sviluppi di carriera, rischio di burn out, contratti precari che ad esempio prevedono per le “notti passive” la presenza dell’educatore nelle comunità per minori ma la retribuzione solo nel caso si verifichi un’emergenza. Chiunque fa due conti e si dice: per quello che mi chiedono e mi offrono, vale la pena che partecipi alla selezione o risponda a quell’annuncio? Assistiamo inoltre allo spostamento di laureati di entrambi i percorsi di laurea verso la scuola tramite la messa a disposizione (Mad), perché la scuola garantisce orario certo anche se precario e non necessariamente per supplenze annuali, assenza di notti non pagate, uno stipendio medio sostenibile. Una richiesta così importante da parte dell’istruzione dovrebbe dirci qualcosa circa la sofferenza che emerge anche in quel sistema.
Gli educatori oggi sono invisibili?
A mio avviso, una parte rilevante assume la narrazione che si fa di queste professioni. L’esortazione rivolta agli aspetti vocazionali o politici sociali in relazione all’importanza di queste professioni all’interno del sistema Paese non è sufficiente, se non supportata dalle condizioni minime lavorative affinché questi aspetti, seppur presenti, non mostrino la corda alimentando fenomeni di burn out generalizzato. Di questi professionisti, infine, si avverte la mancanza solo in caso di indisponibilità, a qualsiasi titolo essa si manifesti. La toppa classica consiste nel popolarli con personale non sufficientemente adeguato. Da qui forse originano anche i numerosi casi di malpractice.
Come procede l’Albo nazionale a cinque anni dall’istituzione nel 2018?
Procede bene, ferme restando le sacche di confusione date dalla normativa e dalle modalità di reclutamento attuate dai soggetti pubblici e privati. Registriamo dubbi e tentennamenti da parte degli iscrivendi sulla obbligatorietà e sull’opportunità di iscriversi.
Quali sono i dubbi sull’obbligatorietà?
La normativa prescrive che tutti coloro che esercitano una professione sanitaria, ciascuna per i propri profili istitutivi, indipendentemente dal tipo di contratto e/o dall’ambito nel quale la si esercita, debbano iscriversi al relativo albo o elenco speciale ad esaurimento (ipotesi consentita fino al 30 giugno 2020). Nel nostro caso viene invocata la presunta non obbligatorietà nel caso non si svolga la propria attività lavorativa all’interno dei servizi del Servizio sanitario nazionale (Ssn), ad esempio in un servizio sociale comunale o in un servizio che si occupi dei minori non accompagnati. La questione è duplice: l’educatore professionale di cui al DM 520/1998 è un operatore sociale e sanitario. Molti confondono e sovrappongono i concetti relativi al luogo e/o servizio di lavoro con le funzioni esercitate, dimenticando la prima area, quella sociale appunto. Nessuno si sognerebbe di mettere in dubbio l’obbligatorietà dell’iscrizione al proprio ordine di un medico o di un infermiere, anche qualora facessero parte di un’unità per l’assistenza ai senza fissa dimora o alle donne vittima di violenza domestica, tipiche attività promosse non dal Ministero della Salute, ma da quello del Lavoro e delle Politiche Sociali.
E i motivi di opportunità?
Viene mosso il rilievo della mancata richiesta e controllo da parte del datore di lavoro, privando di significato l’obbligatorietà. Si dimentica in questo caso che la responsabilità della regolarizzazione insiste in capo al professionista in primo luogo ed in seconda battuta a coloro che hanno indotto la non regolarizzazione. In altre parole, l’esercizio abusivo di professione sanitaria consiste sia nell’agire un fatto, e cioè esercitarla senza avere i prescritti titoli abilitanti, sia nell’omissione di un obbligo e dunque iscrizione al relativo albo. Sarebbe il caso di evidenziare che in questi casi vi è anche carenza di quanto previsto dalla legge n. 24/ 2017 sulla sicurezza delle cure e della persona assistita in riferimento all’obbligo di dotarsi di polizza individuale con copertura per il rischio da colpa grave.
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