Welfare
Educatori cercasi: la crisi del mercato del lavoro educativo
La carenza di educatori è una vera e propria emergenza nazionale: ma da dove nasce? Silvio Premoli, associato di Pedagogia generale e sociale alla Cattolica di Milano passa in rassegna le responsabilità di Stato, Regioni, Università, Terzo settore ed enti gestori, associazionismo professionale, media. L'emergenza attuale deve essere affrontata con un confronto franco tra tutti gli stakeholders, con tempestività.
Dopo la pubblicazione su Vita.it dell'articolo "Educatori, la grande emergenza", ci scrive Silvio Premoli, Professore associato di Pedagogia generale e sociale presso l’Università Cattolica di Milano e Garante dei Diritti per l’Infanzia e l’Adolescenza del Comune di Milano. Ecco il suo contributo, che fa chiarezza sulle cause sella situazione attuale e fa capire tutta l'urgenza di una riflessione condivisa [ndr]
Proprio nel momento storico in cui la vulnerabilità e la fragilità di tanti (bambini, adolescenti, giovani, disabili, anziani) tocca picchi mai registrati in Italia in conseguenza delle privazioni causate dalla pandemia di Covid-19 e appare evidente che, dopo il grande investimento globale sulla ricerca medica alla ricerca di vaccini e cure che possano contrastare il virus sul piano sanitario, occorre investire in vaccini sociali, educativi, culturali, relazionali, i professionisti competenti e deputati agli interventi che possano supportare e promuovere i soggetti deboli, gli educatori, risultano introvabili. Le posizioni scoperte nei servizi socioeducativi sono in drastico aumento, come anche i servizi che chiudono per mancanza di personale (soprattutto quelli più complessi, come i servizi residenziali). Le organizzazioni private e pubbliche che gestiscono i servizi sono in estrema difficoltà.
Si tratta di una vera e propria emergenza nazionale, che nei prossimi mesi assumerà caratteri ancora più gravi, poiché al momento non è stato introdotto alcun intervento compensativo o trasformativo dai soggetti istituzionali responsabili. Ma da dove nasce questa emergenza? E chi ne è responsabile?
Esistono alcuni fattori facilmente identificabili e una serie di responsabilità che si possono accreditare ai diversi soggetti istituzionali coinvolti: Stato, Regioni, Università, Enti gestori dei servizi socioeducativi, Sindacati, Associazionismo professionale.
Fattore 1
La legge 205/2017 introduce alcune disposizioni normative che definiscono la figura dell’educatore sociopedagogico (oltre che del pedagogista): il titolo che consente di poter operare come educatore sociopedagogico è esclusivamente la laurea triennale in Scienze dell’Educazione (L-19). Si tratta di un provvedimento atteso da decenni che riconosce una professione fondamentale per il Welfare italiano. Per tre anni sono state in vigore norme transitorie che hanno consentito a chi era sprovvisto del titolo di laurea di sanare la propria situazione. Al termine di questo triennio chi è sprovvisto del titolo di laurea L-19 non può essere inserito negli organici dei servizi socioeducativi, socioassistenziali e sociosanitari come educatore sociopedagogico. Ad esempio, questo provvedimento impedisce (correttamente) che i laureati in psicologia possano svolgere (come accadeva in passato) nella prima fase della propria carriera il ruolo di educatore sociopedagogico, per cui effettivamente non sono formati. Di conseguenza, è venuta a mancare la possibilità per gli Enti gestori (cooperative sociali, associazioni, fondazioni, aziende speciali, enti locali) di assumere come educatori soggetti senza adeguata formazione di base.
Fattore 2
I contratti nazionali che regolano il trattamento economico degli educatori sociopedagogici prevedono condizioni stipendiali tra le più basse tra le professioni che operano nel nostro paese. Certamente quella dell’educatore è la professione con lo stipendio più basso tra quelle che prevedono l’obbligo di un titolo di laurea. A ciò si aggiunge che spesso le condizioni di lavoro sono davvero difficili: attribuzione di incarichi diversificati per comporre un impegno orario pieno (supporti educativi scolastici in diversi istituti più interventi domiciliari in famiglie residenti in territori diversi; forme di lavoro di fatto a cottimo, imposte dalle stazioni appaltanti che non riconoscono il lavoro scolastico se il bambino è assente; servizi residenziali altamente impegnativi con indennità per lavoro notturno decisamente basse); possibilità di carriera e di conseguenti aumenti stipendiali ridottissime. Questa situazione genera situazioni di fragilità economica e di precarietà nella progettazione di una vita adulta. Inoltre, in molteplici situazioni gli educatori che operano a fianco di soggetti deboli, quali adolescenti allontanati da nuclei familiari inadeguati, donne vittime di violenza, richiedenti asilo, spesso si trovano a guadagnare meno dei propri utenti quando questi trovano lavori che non necessitano titoli di laurea ma hanno riconoscimenti economici più seri (operai, muratori, impiegati, ecc.).
La fragilità contrattuale è stata, poi, misurata in modo pesantissimo durante la pandemia, che ha visto molto tutelati i dipendenti pubblici e poco tutelati i dipendenti delle organizzazioni del settore privato in generale e in particolare quelli del privato sociale, all’interno del quale opera la maggioranza degli educatori.
Fattore 3
Nel momento in cui la scuola italiana ha rivelato l’inadeguatezza della programmazione relativa alla formazione degli insegnanti, cui si è aggiunta l’emergenza Covid che ha ulteriormente elevato il fabbisogno di insegnanti e di insegnanti di sostegno nelle scuole di ogni ordine e grado, si è aperta una fase di grandissimo assorbimento da parte delle scuole pubbliche di educatori sociopedagogici attraverso le MAD (messe a disposizione) e attraverso l’acquisizione da parte di educatori sociopedagogici del titolo di laurea in Scienze della Formazione primaria e del TFA. Si sta registrando negli ultimi anni una forte migrazione di educatori verso il mondo della scuola, che soprattutto negli istituti statali garantisce condizioni contrattuali e stipendiali decisamente migliori e più stabili.
In sintesi, mancano gli educatori, da una parte, perché non è più possibile assumere soggetti con titoli diversi dalla L-19, dall’altra, perché, a fronte di trattamenti contrattuali ed economici non equi, molti educatori cercano altri contesti dove poter svolgere un ruolo educativo e spesso lo trovano nel mondo della scuola pubblica statale.
Le responsabilità
Stato e Regioni. La crisi profonda dei servizi socioeducativi affonda le radici nei drastici tagli al Fondo sociale nazionale decisi da Tremonti nel 2007, che in 6 anni determinarono una diminuzione delle risorse dell’86,5% (avete letto bene). I Governi successivi non sono intervenuti modificando in modo sostanziale quella scelta economica scellerata (scellerata perché assunta a danno dei soggetti più fragili: bambine e bambini, adolescenti, minorenni maltrattati, donne vittime di violenza, persone disabili, anziani, persone povere). Chiaramente la scarsità di risorse non consente di retribuire adeguatamente i professionisti che operano nel sistema di welfare, in primis gli educatori.
Un altro fatto grave è stata la scelta di esternalizzare sui soggetti del terzo settore l’intero comparto dei servizi socioeducativi, spostando la spesa sugli Enti locali (anche spese storicamente a carico del Ministero dell’Istruzione che ha previsto, ad esempio, una decurtazione enorme degli insegnanti di sostegno delegando il supporto educativo a favore degli studenti disabili agli Enti locali, che per la gran parte hanno appaltato i servizi alle organizzazioni del terzo settore), senza, peraltro, prevedere meccanismi.
Le conseguenze inevitabili e prevedibili connesse alla definizione dei titoli di accesso alle professioni educative non sono state valutate con attenzione. In particolare, non si è valutato di programmare l’aumento dei posti disponibili nei corsi di laurea in scienze dell’educazione nelle università italiane, anche se, come appare chiaro, senza un intervento anche sul trattamento economico e contrattuale, la situazione non cambierà.
Le Regioni che, in base alla riforma del Titolo V della Costituzione del 2003, sono competenti in materia di servizi socioeducativi, non stanno comprendendo la gravità della situazione e non stanno mettendo in atto interventi compensativi e sollecitando il Governo a intervenire in modo tempestivo.
Inoltre, non esiste una adeguata tutela della qualità del lavoro educativo sul piano normativo, poiché non sono unanimemente resi obbligatori nelle evidenze pubbliche per l’affidamento dei servizi socioeducativi il coordinamento e la supervisione pedagogici, il riconoscimento economico del lavoro indiretto, cioè quello svolto non direttamente con il destinatario dell’intervento, ma che è fondamentale proprio per rendere efficace l’intervento diretto (lavoro di rete, redazione di relazioni sull’andamento della situazione, riunioni di èquipe, ecc…).
Gli Enti del terzo settore che gestiscono i servizi socioeducativi certamente da anni cercano con fatica di realizzare servizi di qualità per tutti i soggetti fragili, pur in condizioni di grave difficoltà e con risorse inadeguate. Talvolta, però, vengono accettate condizioni proposte dagli Enti appaltanti assolutamente indegne (è chiaro che i primi responsabili sono proprio gli Enti pubblici che bandiscono a condizioni del genere). Inoltre, vanno individuati strumenti di controllo che limitino quelle organizzazioni poco serie e spregiudicate. Questo è un compito dello Stato e delle Regioni, ma deve interpellare anche i soggetti organizzati del terzo settore. Tra gli enti gestori si levano, poi, voci che chiedono di poter accantonare le norme della L.205/97 aprendo la possibilità di assumere educatori con titoli differenti da quello della L-19. Tali logiche, comprensibili in termini di risposta immediata ad una situazione emergenziale, non tutelano né la qualità dei servizi né la qualità del lavoro educativo che richiede una formazione seria, né la valorizzazione dei professionisti che potrà avvenire, come la storia delle professioni nel nostro paese insegna, solo con un chiaro riconoscimento di titoli e competenze, cui possa corrispondere un adeguato riconoscimento sociale ed economico. Su quest’ultimo punto, si rimarca che le Università non formano in modo adeguato i futuri educatori. Si tratta di un annoso malinteso che confonde la formazione di base e la formazione specialistica e on the job, per quanto ci sia certamente, come si vedrà poco oltre, la necessità di migliorare la proposta formativa accademica.
L’associazionismo delle professioni educative è attualmente molto debole e poco rappresentativo, spesso litigioso e frammentato. Si registrano segnali incoraggianti di cambiamento, ma la strada è ancora lunga. Appare inspiegabile che una professione che le stime indicano svolta da circa 200mila persone non trovi forme e strategie per dotarsi di una forte rappresentanza associativa. In questo senso, sarebbe auspicabile una presa di posizione delle università, finalizzata a favorire presso i propri studenti, futuri professionisti dell’educazione, una marcata coscienza professionale e a costruire alleanze con quelle associazioni che stanno intraprendendo un cammino unitario per rendere più forte la voce degli educatori.
I Sindacati spesso non comprendono le specificità della professione educativa e della sua etica (è evidente che un educatore che opera in una comunità educativa residenziale per bambini non sciopererà mai, perché non può abbandonare a se stessi i bambini che gli sono affidati; oppure come possono educatrici dei nidi costruire alleanza con le famiglie sul piano educativo, se poi sul piano della rivendicazione dei diritti come lavoratrici sparisce qualunque collaborazione?), come non comprendono le specificità della cooperazione sociale (dove non esiste la dinamica datore di lavoro-dipendente, poiché i lavoratori soci sono proprietari della cooperativa stessa). Urge identificare forme di rivendicazione originali e innovative e costruire un’alleanza tra sindacati e organizzazioni del terzo settore perché l’unico soggetto che può generare un reale miglioramento delle condizioni stipendiali e contrattuali è lo Stato, attraverso la previsione di una spesa per il Welfare più equa (e non spostata quasi totalmente sul sistema previdenziale, come accade nel nostro paese).
Anche le Università hanno responsabilità. È evidente che chi istituzionalmente forma le professioni deve interessarsi alle condizioni del mercato del lavoro dei vari settori in cui i propri studenti si inseriranno. E deve quindi dialogare con tutti i soggetti istituzionali coinvolti per migliorare la situazione. La richiesta di una formazione accademica più adeguata da parte delle parti sociali non appare del tutto infondata. Da una parte, è vero che i percorsi universitari non hanno la funzione di preparare professionisti pronti a esercitare il proprio lavoro il giorno dopo la laurea, quanto piuttosto giovani che abbiano strumenti per avviare un proprio percorso di professionalizzazione all’interno dei contesti lavorativi[2]. E ciò è ancora più vero se stiamo parlando della professione educativa che richiede un percorso continuo di formazione nella logica del workplace learning (con il supporto della formazione in servizio, della supervisione, del lavoro di équipe). Dall’altra, emerge in modo evidente che le tabelle ministeriali che definiscono le discipline del corso di laurea in Scienze dell’Educazione prevedono una serie di insegnamenti poco pertinenti con obiettivi di professionalizzazione. Per inciso, il limite delle tabelle ministeriali è ancora più evidente nel corso di laurea in Educazione professionale (L/SNT2) che forma l’educatore sociosanitario, dove si registra un fortissimo sbilanciamento verso le discipline medico-sanitarie, con una grave marginalizzazione delle discipline pedagogiche e psico-socio-antropologiche, spesso tra l’altro scollegate da investimenti nella ricerca, perché affidate soprattutto a docenti a contratto.
Appare, quindi, urgente riformare e innovare la formazione dell’educatore sociopedagogico: orientandola in maniera più marcata verso insegnamenti di area pedagogica ad orientamento pratico; sollecitando forme di connessione tra didattica, competenze in uscita previste per il corso di laurea e confronto con i professionisti e le organizzazioni; introducendo una maggiore interazione e un maggiore raccordo tra università e mondo dei servizi; aumentando le ore di tirocinio e l’accompagnamento supervisionale alle esperienze svolte sul campo; prevedendo forme che incentivino la ricerca accademica basata su e orientata alle pratiche professionali. Ovviamente uno sforzo del genere avrebbe senso se contestualmente si realizzassero i miglioramenti contrattuali cui si è fatto riferimento.
Anche i media hanno svolto un ruolo nel creare l’attuale situazione, ignorando il più delle volte l’importanza del lavoro socioeducativo negli equilibri sociali, economici, culturali del nostro paese e sostenendo una narrazione di alcuni ambiti di intervento (in primis del settore della tutela minorile e del mondo delle comunità di accoglienza residenziale per minorenni) pesantemente delegittimante, che hanno contribuito a marginalizzare la percezione del valore di questo lavoro nell’opinione pubblica e a costruire un immaginario della professione educativa poco desiderabile tra i giovani.
Il quadro presentato fa comprendere che l’emergenza attuale, affinchè non generi ricadute devastanti per una intera categoria professionale e per i destinatari (vulnerabili) degli interventi di questi professionisti, deve essere affrontata con un confronto serio e franco tra tutti gli stakeholders, con un’assunzione di responsabilità specifica da parte di ciascun soggetto, con tempestività.
[1] Per un approfondimento in merito si veda il mio articolo «Educatori e ricerca. Come lavorare tra teoria e prassi», pubblicato nel 2017 sulla rivista Pedagogia Oggi e reperibile al seguente URL: https://ojs.pensamultimedia.it/index.php/siped/article/view/2412/2170
*Silvio Premoli è Professore associato di Pedagogia generale e sociale presso l’Università Cattolica di Milano e Garante dei Diritti per l’Infanzia e l’Adolescenza del Comune di Milano.
Photo by Patrick Buck on Unsplash
17 centesimi al giorno sono troppi?
Poco più di un euro a settimana, un caffè al bar o forse meno. 60 euro l’anno per tutti i contenuti di VITA, gli articoli online senza pubblicità, i magazine, le newsletter, i podcast, le infografiche e i libri digitali. Ma soprattutto per aiutarci a raccontare il sociale con sempre maggiore forza e incisività.