Formazione
Educare? Gli educatoribne facciano un problema
buoni e cattivi maestri Luigi Regoliosi, professore di Politiche sociali
di Redazione
«Per trasmettere davvero qualcosa non bastano quattro tecniche di animazione di gruppo o di conduzione di colloqui. Occorre mettersi in gioco e prendere dei rischi» A partire dagli anni 70, la parola educazione, connotata negativamente come condizionamento e indottrinamento ideologico, è stata estromessa dal vocabolario e sostituita da espressioni quali socializzazione, animazione, sviluppo di potenzialità. Parallelamente, screditando il concetto di autorità, assimilato a quello di autoritarismo, è venuta meno l’idea che l’educatore giochi una certa asimmetria nei confronti dell’educando. È quella che Luigi Regoliosi, docente di Metodologia del lavoro socioeducativo e di Politiche sociali e prevenzione della devianza alla Cattolica di Brescia, chiama «la lunga eclissi dell’educazione». «Occorrerà del tempo, ma ho l’impressione che questa stagione stia finendo, vedo timidi segnali di rinascita».
Vita: Quale fattore restituisce all’educazione la sua statura?
Luigi Regoliosi: La relazione, senza la quale tutto si riduce a semplice trasmissione di informazioni. La relazione è il luogo in cui l’educatore gioca la propria umanità, affettività, esperienza e convinzioni. La maieutica che dagli anni 70 in poi ha esplorato il significato etimologico del termine ex-ducere (“trarre fuori”), però, ha manifestato alcune possibili ambiguità. L’idea di un’educazione finalizzata esclusivamente al tirar fuori dall’allievo le potenzialità nascoste ha rischiato di produrre una pedagogia tutta orizzontale, tutta centrata sull’educando, nella quale la figura educativa risultava di fatto inessenziale. Se riteniamo che sia già tutto dentro l’alunno, significa che non esiste niente altro prima, durante e dopo. Il rapporto si consuma nella contingenza del qui ed ora, e la pedagogia deve ricominciare sempre da zero: ogni sfida educativa è un’esperienza a sé, in cui viene meno il riferimento alla storia e alla tradizione.
Vita: Non solo “trarre fuori”, quindi. Cos’altro?
Regoliosi: Credo che debbano esserci entrambi i termini della questione: aiutare a far maturare ciò che esiste nell’alunno, ma anche introdurre alla realtà che è fuori e che lo precede. Così come dovrebbero esserci due umanità che entrano in rapporto: quella dell’educando, con la sua storia, creatività, personalità, e quella dell’educatore, portavoce di un mandato educativo radicato in una tradizione. La storia, fra l’altro, è esattamente la dimensione che consente il dispiegarsi della relazione. In questi termini si può parlare seriamente di educazione: d’altra parte, per tirare fuori un po’ di potenzialità non servono maestri, bastano counselor e animatori.
Vita: Funzionari insomma…
Regoliosi: Li chiamerei tecnici della materia: man mano che si sale nel grado dell’istruzione diminuisce la valenza pedagogica dell’insegnante. Nelle sue competenze rientrano la matematica, l’inglese, l’italiano, ma non la formazione personale dell’alunno, la dimensione emotiva e affettiva, etica e valoriale. Mi pare che anche da questo punto di vista qualcosa stia cambiando, ma è chiaro che c’è un impoverimento profondo da recuperare e, in un momento in cui la crisi delle ideologie, delle fedi e delle convinzioni precedenti è un fenomeno innegabile, è facile che l’insegnante stesso si scopra un po’ smarrito, poco attrezzato nel dare risposte.
Vita: Va meglio con gli educatori?
Regoliosi: Ci troviamo di fronte a un paradosso: da una stagione storica non molto favorevole al concetto di educazione, è nata la figura dell’educatore professionale, con scuole e facoltà dedicate. Sorge il dubbio su cosa voglia dire formare degli educatori. Chi sono? Tecnici dell’educazione? Esperti in socializzazione? Alla Cattolica comincio i corsi chiedendo ai miei allievi: «In nome di cosa educate? In cosa consiste il vostro mandato?» Perché è chiaro che non basta possedere quattro tecniche di animazione di gruppo o di conduzione di colloqui.
Vita: Qual è l’alternativa?
Regoliosi: Il ripristino di una cultura monolitica fatta di granitiche certezze sarebbe anacronistico: le contaminazioni socioculturali e i cambiamenti che interessano la contemporaneità richiedono oggi approcci interdisciplinari, un po’ meticci, e maestri aperti alla complessità. Più che certezze inossidabili mi sembra importante avere alcuni orientamenti forti da mettere in gioco dentro una realtà in trasformazione, che richiede certamente soluzioni nuove e creative, ma che allo stesso tempo pone all’educatore un problema di radicamento identitario, da combinare a una grande apertura mentale e alla capacità di entrare in dialogo.
Vita: Che ruolo gioca la libertà?
Regoliosi: Bisogna intendersi sul concetto. È un equivoco quello per cui l’unico modo di evitare i condizionamenti sia educare al relativismo assoluto, perché questo genera immobilismo o peggio ancora sudditanza dall’opinione altrui, dalla moda, dall’impulsività, dal consumo, ecc. A partire da una proposta educativa, allora, il buon maestro invita al confronto con tutto il resto, sfidando l’allievo a rispondere con libertà, capacità critica e creatività. È la dimensione del rischio educativo: metto a rischio qualcosa perché metto qualcosa nelle tue mani, poi tu ne fai ciò che vuoi. Ma senza un’ipotesi di lavoro, non c’è esercizio di libertà: sarebbe una scelta mancata su un’alternativa che non si pone, una libertà monca che non si può esplicare perché manca la posta in gioco. La relazione è il vero fondamento della libertà. Quando l’educatore stabilisce con l’educando una relazione non manipolatoria, non autoritaria, non seduttiva, lo mette in condizione di introdursi nella realtà, dicendo dei sì e dei no realmente personali. L’educazione altro non è che il prolungamento dell’atto generativo.
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