Anniversari

Eduardo, è ora di inserirlo nei libri di storia

Oggi si celebrano i 40 anni dalla morte del grande De Filippo. Giuliano Pavone, appassionato studioso della figura dell’artista, è in libreria con un romanzo di formazione che vede protagonista il drammaturgo, attore e regista. «La grande lezione di Eduardo è la sua capacità e la sua lucidità nel leggere la complessità del mondo»

di Ilaria Dioguardi

Per diventare Eduardo, De Filippo ci ha messo una vita. A distanza di 40 anni dalla sua morte, il 31 ottobre 1982, attraverso un romanzo di formazione Giuliano Pavone dimostra l’essenza più vera e semplice di un’esistenza spesa per l’arte, che può contagiare ogni generazione. Nel libro Diventare Eduardo (Laurana Editore), De Filippo è protagonista attraverso il viaggio fatto da Franco, nel 1982 verso Roma, per intervistarlo. Nelle pagine, dove tutti i virgolettati sono tratti o ispirati dalle dichiarazioni di De Filippo, si respira non solo la storia di Franco, ma soprattutto la grande lezione di Eduardo, drammaturgo, attore, regista, sceneggiatore, poeta. Una lezione che oggi più che mai risulta attuale.

Pavone, ci racconta il suo libro?

È un classico romanzo di formazione, la storia di un ragazzo che diventa uomo. Quindi, scopre il mondo, affronta un po’ tutte le sfide della vita adulta. Il suo mentore è Eduardo De Filippo, che ha 82 anni. Franco è un tarantino che abita a Tamburi, il quartiere operaio, è figlio di un operaio siderurgico. Frequenta il liceo classico di Taranto, riceve una borsa di studio proprio dall’Italsider, dallo stabilimento siderurgico, e dal giornale locale per fare un reportage. E si decide che questo reportage sarà un’intervista a Eduardo Di Filippo. Questo ragazzo, che sa ancora pochissimo del mondo, che non ha mai messo la testa fuori da Taranto, improvvisamente a 16 anni si trova al cospetto di questo monumento della cultura italiana.

E l’incontro tra Franco e Eduardo come si svolge?

Eduardo era una persona dal carisma enorme che incuteva timore. Poi a 82 anni era veramente un grande vecchio della cultura, aveva il suo modo di fare un po’ sornione, anche un po’ scorbutico. Quindi immaginiamo come può essere questo rapporto, questa epifania…

Nel suo libro, tutti i virgolettati sono tratti o ispirati dalle dichiarazioni reali di De Filippo. Ce n’è uno che vuole riportarci?

Lui a un certo punto dice: «L’attore deve essere stanco». Lui teneva ancora, a quell’età, delle lezioni di teatro all’Università di Roma. Durante una di queste lezioni afferma che l’attore deve essere stanco perché quando è troppo fresco, tende a strafare, tende a gridare le battute, a sottolineare troppo quello che dice, a gesticolare. Eduardo dice che, quando un attore è così “carico”, il pubblico quasi quasi lo fa apposta a non ridere. Invece la battuta la devi buttare lì, come se niente fosse. Devi dare l’impressione al pubblico che la battuta ti è venuta in mente in quel momento, anche se in realtà è tutto studiato.

Un’altra curiosità?

Lui parlava malissimo del cinema, pur avendone fatto tanto. Amava molto il teatro e negli anni ’50-’60 ha accettato di girare molti film perché aveva bisogno di soldi. Gli servivano per quello che è stato uno dei grandi progetti della sua vita: il recupero del teatro San Ferdinando. È un teatro storico di Napoli che era stato bombardato e che lui, nel corso di tutta la vita, è riuscito a e riaprire vincendo una serie di battaglie burocratiche. Alla fine è riuscito a coronare il suo sogno: un teatro popolare sia nella programmazione che nei prezzi. Il San Ferdinando esiste ancora a Napoli, in un quartiere popolare.

Qual è la grande lezione di Eduardo?

È una lezione che oggi più che mai risulta attuale e si interseca con la nostra società, con il nostro pensiero, mentre al suo tempo poteva essere più sussurrata. È la sua capacità e la sua lucidità nel leggere la complessità del mondo. Noi siamo in un’epoca in cui, di fronte a qualsiasi questione, semplifichiamo molto le nostre posizioni, ci polarizziamo, facciamo il tipo per l’uno o per l’altro. Invece la realtà non è così. Ci sono tante cause, concause, le spiegazioni sono sempre complesse. Il che non vuol dire essere un diplomatico, non significa dire che non è colpa di nessuno, o che è un po’ colpa di tutti. È un atteggiamento molto lucido in cui i giudizi si danno, sono molto chiari, sono molto severi, però si tiene sempre conto del contesto. La realtà nelle sue infinite sfumature non è tutta bianca, o tutta nera, ma ci sono infiniti toni di grigio che vanno esplorati e che lui sapeva rappresentare benissimo. E poi un’altra cosa che a me piace molto di lui è che, pur essendo estremamente lucido, severo, tagliente, anche critico nell’affrontare i temi sociali, era permeato da una grande pietà, da una grande empatia.

La grande lezione di Eduardo è la sua capacità e la sua lucidità nel leggere la complessità del mondo

Ci spieghi meglio.

Eduardo ha toccato anche dei temi molto delicati, però non l’ha mai fatto mettendosi su un piedistallo o giudicando freddamente, come un entomologo con la lente di ingrandimento che guarda un insetto e lo descrive. L’ha fatto senza sconti, ma allo stesso tempo con una grande empatia e con una grande pietà, era molto partecipo. E questo poi l’ha dimostrato nella sua vita, oltre che nelle sue opere. Ad esempio, nell’impegno che ha dedicato per gli ospiti dell’ex Istituto di pena minorile Filangieri di Napoli. È andato a trovarli tante volte, così come andava in fabbrica a trovare gli operai. Sul tema delle carceri minorili, siccome è stato nominato, negli ultimi anni della sua vita, senatore a vita, si è impegnato anche nelle aule del Senato per sensibilizzare. Dopo la sua morte, quando si è messo mano al tema dei ragazzi a rischio, è stata approvata una legge, nota come Legge Eduardo, proprio per sottolineare che lo slancio iniziale l’ha dato lui (La legge Eduardo, finalizzata a sostenere i ragazzi a rischio di emarginazione sociale e di devianza di età compresa tra i 15 ed i 20 anni, è stata, inizialmente, sperimentata per Nisida (Futuro ragazzi) e Benevento (Villaggio dei ragazzi), ndr).

Giuliano Pavone

Il suo è un libro che può far capire ai più giovani la figura di Eduardo.

Sì, per fortuna alcune scuole mi stanno invitando a presentarlo. Mi fa un immenso piacere. È giusto che i più giovani la conoscano. Eduardo non è mai andato via, le sue opere continuano a essere rappresentate e lui vive con loro. Negli ultimi anni, c’è stato anche un risveglio di interesse, negli anni scorsi ci sono stati due film al cinema: Qui rido io, di Mario Martone sulla vita di Eduardo Scarpetta, o I fratelli De Filippo, di Sergio Rubini. Fino ad arrivare alla scelta della Rai di produrre ogni anno una fiction tratta da una sua opera (quest’anno Non ti pago con Sergio Castellitto). Secondo me, sarebbe ora di storicizzarla definitivamente questa figura.

In che modo?

Sarebbe ora di far finire De Filippo sui libri di scuola. Come io, negli anni ’70-’80, a scuola studiavo Pirandello, che era morto 40-50 anni prima, ora i ragazzi potrebbero studiare De Filippo. Siamo in un momento storico anche di passaggio generazionale per cui, se questo passo non si fa, davvero si rischia di perdere la sua memoria.

Ci racconta qualcosa della settimana che il protagonista del suo libro trascorre con Eduardo?

Mi sono divertito a immaginare questo anziano signore che si diverte un po’ a mettere alla prova questo ragazzo. Quindi all’inizio gli fa degli scherzi, fa il finto scorbutico, gli dice delle cose per metterlo in difficoltà, per metterlo alla prova. Nel corso dei giorni il rapporto si ammorbidisce, si crea confidenza per cui lui è anche molto generoso, gli dedica il suo tempo. È un po’ il nonno di una volta, burbero ma sotto sotto molto affettuoso. Pur essendo molto moderno per tanti aspetti, però nella gestualità, nei lineamenti del viso (scavato, antico, che parlava del passato), rimanda alle nostre radici. Tra Franco ed Eduardo si crea un rapporto nonno-nipote. E sullo sfondo c’è la scoperta di Roma.

Il fatto che è nato nel 1900, un anno tondo tondo, è quasi emblematico di un uomo che in un certo senso racchiude in sé tutto il secolo

Come nasce la sua passione per Eduardo?

In due momenti, uno molto lontano e uno abbastanza recente. Quello molto lontano è il fatto che per la mia generazione, anche per mia estrazione geografica, essendo tarantino quindi meridionale, sono nato già con Eduardo dentro, fa parte del mio corredo genetico. Natale in casa Cupiello, Filumena Marturano li ho visti tantissimo da piccolo. Le  voci di dentro è una commedia di De Filippo che ho rivisto in tv di recente. Mi sono ricordato che quando ero piccolo  mi aveva colpito tantissimo, quando dice che i morti stanno dappertutto: quando senti la porta che cigola, il mobile di legno che fa uno schiocco. Poi qualche anno fa, per motivi un po’ casuali, mi è venuta la curiosità di approfondire le sue opere e la sua vita. E lì ho scoperto che era proprio interessante la sua biografia, ha conosciuto praticamente tutti i grandi del ‘900, da Pirandello a Totò, da Anna Magnani a Dario Fo, da Carmelo Bene a Sandro Pertini. Il fatto che è nato nel 1900, un anno tondo tondo, è quasi emblematico di un uomo che in un certo senso racchiude in sé tutto il secolo. E quindi ho cercato di approfondire, volevo farne qualcosa di questa vita, volevo trovare un modo per raccontarla in una maniera inedita.

 E così è nata l’idea di Per diventare Eduardo?

Sì, un romanzo poteva essere una chiave nuova, anche perché attraverso questo incrocio generazionale, facendo incontrare un vecchio Eduardo a un giovane Franco, riesco in un certo senso a proiettare, a spalmare la sua lezione negli anni a venire, quando poi Eduardo è morto. Il gioco è anche applicare i valori di Eduardo a delle questioni che lui non ha vissuto perché erano temi che non erano ancora sul tavolo ai suoi tempi. Nel romanzo, essendo Franco di Taranto, c’è anche la questione della salute, del lavoro, dell’ambiente, dell’Ilva. Nel libro si capisce che l’incontro con De Filippo a Franco ha cambiato la vita, gli ha aperto la mente, gli ha fatto pensare a delle cose a cui non aveva mai pensato. Come succede, più o meno, a tutti coloro che hanno la fortuna, soprattutto in gioventù, di incontrare un mentore, qualcuno che apre loro gli occhi.

Nella foto di apertura, di Olycom-LaPresse, De Filippo sulla scena de L’oro di Napoli, film diretto da Vittorio De Sica nel 1958. Nel corpo dell’articolo, foto dell’intervistato

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