Economia
Economia Sociale e Solidale, è il momento per un salto di qualità
Con il documento “Meccanismi finanziari per gli ecosistemi innovativi dell’economia sociale e solidale” l'Euricse, con il supporto dell'International Labour Organization, propone la fotografia dell’economia sociale. «Vale tra il 5 e l'8% del Pil e tra l'8 e il 10% dell'occupazione nel mondo», sottolinea Gianluca Salvatori, segretario generale dell'Euricse
Un documento che sintetizza i risultati del progetto “Meccanismi finanziari per gli ecosistemi innovativi dell’economia sociale e solidale”, ideato per favorire una migliore comprensione dei diversi modi in cui le risorse finanziarie possono essere rese disponibili e accessibili per sostenere la crescita delle organizzazioni dell’economia sociale e solidale (ESS) e dei loro ecosistemi. Un report a cura di Euricse che restituisce una fotografia, «il più possibile fedele dello stato dell'arte dell'ESS nel mondo, per cui sono stati presi in esame otto Paesi tutti divefferenti ma con una grande tradizione», spiega Gianluca Salvatori, segretario generale di Euricse. L'intervista
Quali i dati più significativi di questo report?
La prima cosa che va sottolineata è che mai come oggi il sistema delle Nazioni Unite sta guardando al tema dell’economia sociale con attenzione per le proprie politiche. È di pochi giorni fa la presentazione di un documento del segretario generale in cui si apre una riflessione sull’importanza di questo terzo pilastro ha nei processi di sviluppo a qualsiasi latitudine. C’è quindi ormai una consapevolezza dell’importanza di questo pezzo consistente dell’economia
Un pezzo che possiamo quantificare?
Non esistono cifre attendibili perché è la ricognizione statistica è ancora disomogenea. Ci sono Paesi molto avanzati come l’Italia, con sistemi di rilevazione molto accurati, e altri in cui questo settore viene messo nel calderone delle imprese. Possiamo parlare di un fenomeno che a livello globale è attorno del 5/8% del Pil e 8/10% dell’occupazione. Questa la dimensione media che si osserva. La ricerca, commissionata dall’Ilo su finanziamento del Governo del Lussemburgo, ha preso in esame otto Paesi. Abbiamo quindi preso in considerazione Ecuador e Colombia per il Sudamerica, Marocco e Capo Verde per l’Africa, Quebec per il Nord America, Corea del Sud per l’Asia e per l’Europa Italia e Lussemburgo.
Quindi un comparto importante…
È un fenomeno che non è più marginale e sta crescendo costantemente. Con una spinta molto forte in tutti i continenti negli anni della crisi. Il problema è come si sostiene questa forma di economia. Visto che la crescita non è solo quantitativa ma anche di settori e ambiti.
E la risposta qual è?
Tradizionalmente nei paesi in via di sviluppo con l’agricoltura di sussistenza organizzata attraverso forme di economia cooperativa mentre nei paesi più sviluppati attraverso servizi di assistenza socio sanitaria. Non è più così. Gli strumenti più utilizzati sono accesso al credito o risorse e mezzi propri. Forme finanziarie come le obbligazioni sono molto marginali. Se ne parla più di quanto se ne faccia un reale utilizzo
Quindi sono molto simili alle imprese tradizionali…
Però con alcune caratteristiche specifiche: la prima delle quali è che si usano moto strumenti interni di capitalizzazione come prestiti dai soci, investimenti fatti dai membri o conferimenti di asset e beni. E poi il capitale che si accumula nel tempo dovuto al fatto che non c’è distribuzione dei profitti. Nel tempo, superata la fase di avviamento, sono organizzazione che negli anni si patrimonializzano in modo importante e più massiccio del profit. Il meccanismo è un po’ sui generis rispetto all’impresa tradizionale. Più durano, più sono anziane, e più queste realtà sono ben patrimonializzate e posso accedere al credito
Per questo per gli investitori sono molto interessanti?
Esatto. Sono considerate, e sono poi nei fatti, meno rischiose per gli investitori delle profit. Sul lungo periodo hanno un profilo di rischio molto minore avendo un trust, una componente di fiducia, molto alto.
Eppure evitano la finanza. Perché?
Sono i clienti perfetti per gli investitori. Ma questi strumenti nuovi rispondono soprattutto alla logica dell’investitore non dell’investito. In special modo nella valutazione dell’impatto non tengono in considerazione bisogni obiettivi e principi tipici dell’economia sociale.
Perché non costruire settori finanziari ad hoc?
Ci sono esempi: esiste un fondo in Quebec creato dai soggetti dell’economia sociale. È un fondo di investimenti che risponde ai criteri del privato sociale. In Italia c’è Cooperazione Finanza e Impresa che fa più o meno lo stesso nelle operazioni di working byout.
Che conclusioni avete tratto scattando questa fotografia?
Il mondo profit negli ultimi anni ha cominciato ad acquisire e adottare principi che tradizionalmente erano rappresentati dalla sensibilità non profit. Penso agli Isg o alla finanza ad impatto. Questo è un allarme: l’economia sociale deve capire che vanno fatti dei passi avanti. Non essendo più gli unici depositari di certe posizioni devono alzare l’asticella ed essere ancora più esigenti nei propri obiettivi.
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