Economia

Ecco perché siamo più etici di quanto dichiariamo

di Redazione

C’è sempre uno strano clima quando si parla di etica in azienda. Un non so che di superfluo. Un non detto di incredulità: tra buonismo e cinismo. Non succede solo in azienda, ma circoscriviamo il discorso per specificità. Da un lato l’etica è oggetto di invocazione verbale, dall’altro le esortazioni vengono spesso accolte con scettico disprezzo. L’invocazione verbale è fatta a base di sostantivi astratti, come certe canzoni di Antonello Venditti («Se l’amore, è amoreee»), prive di esempi. Il disprezzo è corredato dal sorrisetto di chi la sa lunga. In banca per esempio: «Ti voglio vedere quando viene il capo filiale e ti dice di vendere un certo titolo entro fine mese e non gliene frega niente a chi lo vendi».
Entrambe le posizioni sopra presentate sono frustranti. In mezzo c’è una pratica dell’etica che resta un mistero: non sappiamo quanto in realtà siano immorali coloro che sorridono contro l’etica e quanto siano morali coloro che concionano a favore dell’etica.
Per capire quanto il fulmine tenga dietro al baleno, è utile specificare con esempi le azioni che possono incarnare momenti etici, cioè di volontaria adesione ad un comportamento che si ritiene corretto anche se poco conveniente sia dal punto di vista strettamente economico aziendale che del proprio tornaconto particolare: lavorare quel tanto che basta a non essere licenziati; non pagare le tasse; non pagare le fatture ai fornitori; saltare le file, anche in concorsi e gare, pubblici e privati; rubare sulle note spese; vendere azioni Cirio alle vecchiette; mettere su un sistema di incentivi per i propri venditori molto articolato e pervasivo eppure di corto termine che non tiene conto delle esigenze del cliente (come certe multinazionali); ignorare il sistema di incentivi alle vendite di titoli, sistemi impiantati dalle banche per i propri venditori (come ignora la Banca centrale europea); copiare un marchio; taroccare una borsa; fare obiezione di coscienza per il 70% dell’intera categoria (come fanno certi medici).
Alcuni dei comportamenti sopra indicati si riferiscono a piana osservanza della legge ed è su questi che abbiamo modo di comprendere sperimentalmente quanto ci sia di ipocrita in noi quando invochiamo e quanto di villano in noi quando disprezziamo l’etica. La tesi che propongo è che siamo molto più etici di quanto gli scettici vorrebbero accreditare. La prova che vorrei portare a favore di questa tesi è che i tribunali emanano sentenze a molti anni di distanza dai fatti e la sentenza è spesso a vantaggio di chi ha torto. Se agendo illegalmente ci si può procurare un vantaggio economico, allora conviene farlo poiché la giustizia nazionale è fatta per il debitore: male che vada si sarà costretti a restituire la somma rubata con gli interessi legali, non si sente parlare di somme dovute per tenere conto del danno e del tempo intercorso, nel quale si è sofferto del danno stesso. Il tempo non è una variabile del diritto nella giurisprudenza nazionale. L’invocata certezza del diritto resta un fatto retorico: non solo l’applicazione del diritto è incerta, ma laddove essa avviene è nei fatti a scapito di chi ha ragione. Lo Stato stesso si avvale di questa impunità: un signore bosniaco è stato compensato con mille euro per aver passato cinque mesi in una cella sovraffollata (Tg, 4 agosto 2009). Meno di sette euro al giorno: è economico per lo Stato avere carceri sovraffollate e compensare ciascun carcerato con sette euro al giorno, invece che fare nuove carceri o prendere altre misure correttive.
È conveniente delinquere: la maggior parte di chi non lo fa ha un implicito comportamento etico, inteso come volontaria, non sanzionabile sottomissione a regole di buona convivenza civile. Siamo più etici di quanto dichiariamo. Quando ci diciamo non etici lo facciamo forse per machismo.


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