Formazione

Ecco perché ho salvato il mio rapinatore

Elisabetta s'era vista puntare una pistola allo stomaco,nel suo negozio di cellulari.Ma quando quel giovane bandito è stato catturato,lei non ha preteso vendette.

di Cristina Giudici

Milano, un quartiere come tanti, dove i caseggati della periferia si mescolano alle vetrine scintillanti dei negozi e storie di ordinario degrado si infilano senza pudore nelle case di onesti commercianti. Lei è una giovane negoziante, dall?aria irruente e ribelle. Lui è un giovanissimo aspirante ladro, con un passato difficile alle spalle. Insieme hanno scritto un capitolo inedito di una Milano poco conosciuta e poco raccontata in queste settimane di grandi allarmi sull?esplosione della criminalità nella metropoli lombarda: il capitolo della tolleranza. Una città più nascosta che, pur avendo paura, non grida vendetta né chiede il porto d?armi per combattere la propria guerra personale contro ladri e rapinatori, ma sa anche prendere strade diverse, forse incerte, ma sicuramente più utili dal punto di vista sociale. Lei si chiama Elisabetta, ha 27 anni, e un anno fa ha subito un rapina a mano armata. Lui, uno dei rapinatori di allora, si chiama Giuseppe, ha 21 anni ed era già rassegnato a finire in galera. Poi davanti all?eventualità di ricorrere all?istituto della sospensione della pena, Elisabetta ha proposto di essere risarcita in una forma molto originale: obbligando il suo rapinatore a diventare guardia volontaria nel suo negozio, per difenderla da nuovi assalti. E ha posto anche un?altra condizione: che Giuseppe stesse nel negozio di telefonini dalle 18 di ogni pomeriggio, l?ora in cui un anno fa lui vi entrò con un passamontagna in testa e una pistola in mano per poi puntargliela allo stomaco. La storia di Giuseppe e di Elisabetta non è una storia d?amore come tutti vorrebbero credere, né un capitolo da libro cuore. Ma è solo una storia di civiltà da parte di chi ha capito che non sempre il carcere serve a difendersi o a proteggersi dalla violenza. «Quando la notizia è trapelata, qualcuno mi ha mandato un mazzo di fiori, e qualcun altro ogni sera mi chiama per telefono, mi dice ?vergognati? e riattacca. Poi ci sono i curiosi, quelli che vengono in negozio con una scusa, ma il loro obbiettivo è di vedere il ?mostro?. E allora io mi domando se la gente riuscirà mai a capire le ragioni del mio gesto», dice Elisabetta, che ha deciso di raccontarci l?intera vicenda in un?intervista esclusiva. Mi ha detto: dammi i soldi o t?ammazzo «Erano le sei di pomeriggio. Sono entrati in due. Avevano il volto coperto e la pistola in mano. Uno di loro mi ha premuto la pistola sullo stomaco e mi ha detto: ?Dammi i soldi o ti ammazzo? e allora mi sono messa a urlare. Non sapevo più cosa fare, poi ho visto mio padre per terra, con il sangue che gli colava dalle tempie e non ho capito più niente. Mi sono voltata, ho preso la scala e l?ho scagliata addosso all?altro rapinatore, quello che aveva assalito mio padre. Intanto la persona che faceva il palo è scappato via in motorino e gli altri due sono anche loro scappati fuori del negozio, con dei cellulari e con i soldi. Mio padre si è alzato e si è buttato su di loro, poi è rimasto a terra. In quel momento ho pensato che lui fosse morto e non ci ho proprio visto più: mi sono lanciata all?inseguimento del rapinatore che aveva la refurtiva in mano, in quel momento lo volevo uccidere. Ero fuori di me. Lui correva davanti a me, con i soldi in una mano e la pistola in un?altra. L?ho raggiunto e gli ho strappato le cose che aveva nelle mani. Così, senza accorgermene, mi sono trovata con la sua pistola in mano. Lui si è voltato e allora l?ho visto: gli occhi sbarrati dalla paura e il volto di un bambino. Mi sono fermata. Pensavo di dovermela prendere con un mostro, un uomo con il volto duro e cattivo e invece era solo un bambino terrorizzato. Lui ha approfittato del mio smarrimento ed è scappato». Per Elisabetta non era la prima volta. Le era già successo di essere rapinata nel suo negozio, quattro volte in tutto. «Una volta ogni sei mesi veniamo rapinati», precisa. «Anche la volta precedente mi ero lanciata all?inseguimento», ricorda. «Poi uno dei rapinatori mi ha puntato la pistola per spararmi e mi sono fermata». Ma Elisabetta non è un?eroina senza macchia e senza paura, è una ragazza che ha dovuto imparare a convivere con la paura. «Dopo la rapina, sono iniziati gli incubi, ogni notte. Sognavo quel volto e negli incubi diventava sempre più brutto e minaccioso. Non riuscivo più a lavorare. Ogni volta che entravo in negozio, mi venivano nausea, mal di stomaco, mal di testa. Per un po? ho chiesto ai miei amici di venire in negozio a farmi compagnia, ma avevo sempre paura. Di notte mi svegliavo con il cuore in gola e non riuscivo più a dormire sonni tranquilli. In ogni caso ho deciso di fare il mio dovere e sono andata in questura per il riconoscimento. Non mi hanno trattato molto bene, mi facevano pressione, urlavano che dovevo essere molto sicura e mi facevano i trabocchetti, mescolando le sue foto con quelle di un agente di polizia. Ma io il suo viso ce l?avevo stampato nella mente e l?ho riconosciuto subito, come ho riconosciuto le foto degli altri due rapinatori. In seguito sono venuti fuori del negozio per lanciarmi un avvertimento. Così da quel momento non ho più voluto sapere nulla della vicenda, né fare altri confronti. Volevo solo dimenticare e basta. E tornare a fare una vita normale». Non c?era somma che potesse risarcirmi E invece si avvicina l?ora del processo, due settimane fa, in cui l?unico incriminato è Giuseppe, proprio quello dal volto da bambino che per un?interminabile manciata di minuti ha premuto la pistola contro la sua pancia e che Elisabetta poi ha rincorso per strada, in preda all?odio e al terrore. E così un giorno arriva il padre di Giuseppe, mortificato, impacciato e abbattuto, per chiedere la salvezza di suo figlio. «L?avvocato mi aveva già accennato della possibilità di arrivare al patteggiamento della pena e chiedere in cambio un risarcimento materiale, che ammontava a circa dieci milioni, e io mi sono infuriata. In un primo momento pensavo che si trattasse di una cosa illegale. Ero indignata perché pensavo che nessuna somma potesse risarcirmi del danno subito. Poi un giorno è arrivato il padre di Giuseppe a chiedermi cosa poteva fare per salvare suo figlio, mi ha detto che capiva perfettamente la mia rabbia e il mio dolore, ma che doveva fare di tutto per salvare suo figlio. Poi è arrivata anche sua madre, mi ha raccontato tutta la sua storia e cioè che per una brutta malattia Giuseppe aveva dovuto interrompere gli studi da pilota e perciò era stato emarginato dai suoi amici. Insomma mi racconta la storia di un ragazzo disperato, in balia di brutte amicizi. Così mia madre si commuove e abbraccia sua madre. E io ho cominciato a pensare, a riflettere sul fatto che forse Giuseppe si meritava un?altra possibilità. Ne ho parlato con il mio ragazzo e con i miei amici; e più loro mi dicevano che avevo torto a essere comprensiva e più io pensavo di aver ragione a pormi degli interrogativi e cercare un?altra via d?uscita. Provavo compassione verso i suoi genitori, ma non volevo dei soldi. Che fare? Quando sua madre è uscita dal negozio le ho detto: ?Chieda a suo figlio cosa lui è disposto a fare per me, per togliermi la paura, per rimarginare la mia ferita?. E a quel punto è arrivata la sua lettera. Una lettera in cui mi spiegava la sua storia e mi diceva che non mi avrebbe odiato se l?avessi mandato in galera e che capiva. Capiva il mio dolore. In quel momento ho pensato per la prima volta: ?Forse è pentito davvero?. E allora mi è venuta un?idea. Ho pensato: ?Bene, se lui è colpevole del mio terrore, allora è lui che me lo deve togliere?. E così ho proposto all?avvocato di farlo venire qui in negozio. Volevo che capisse cosa significa stare dall?altra parte. Avere paura dei rapinatori, appena scende la sera e ci si sente in balìa degli eventi. Volevo fare qualcosa di educativo. L?avvocato di Giuseppe era entusiasta, mi ha detto che potevamo chiedere al giudice la sospensione della pena e porre questa condizione. Così è arrivato il momento del processo e l?ho rivisto. Lui mi è venuto incontro e mi ha subito chiesto scusa, io gli ho detto di pensare bene a quello che faceva, che non si trattava di un perdono, ma solo di una via pratica per mettere d?accordo tutti e per risarcirmi della paura. Insomma non l?ho fatto per pietismo, ma per senso pratico. Certo quando l?ho rivisto, con quella faccia da bambino e lo sguardo pieno di terrore, ho capito che in fondo era solo un ragazzo di vent?anni, come me. E poi sembrava così fragile. Chi ero per rovinargli la vita?» Fra qualche settimana lui, il rapinatore, diventerà un ?angelo custode?, veglierà sulla sua incolumità per un anno e, se qualcosa andrà storto, finirà in galera. Forse diventeranno amici, forse lei non potrà mai dimenticare del tutto. Forse lui invertirà rotta al suo destino e lei saprà che tutto è possibile in questa strana vita. Un po? del suo destino dipendeva da me Ma di una cosa è convinta ,Elisabetta, che almeno ci doveva provare. Senza ipocrisie, né falsa compassione. «Ciò che più ha pesato sulla mia decisione è stato capire che un po? del destino di quel ragazzo dipendeva anche da me, e mi sono anche arrabbiata un po?, perché non è giusto. Io sono giovane e non posso assumermi la responsabilità così grave di decidere la vita di un?latra persona. Spero solo che questa, che ora è solo una bella storia, abbia anche un lieto fine e che lui capisca veramente cosa voglia dire rischiare la vita per fare il proprio lavoro e mi auguro che il suo futuro possa essere migliore». La scelta C’è chi vuole vedere il “mostro” e chi dice che devo vergognarmi.Capiranno mai perché l’ho fatto? Il terrore Dopo la rapina,sognavo quel volto ogni notte,stavo male.L’unica cosa che volevo era dimenticare Commossa Il mio ragazzo non capiva.Ma ho visto i genitori di Giuseppe e mi facevano compassione


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