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Ecco dove la legge non ha funzionato

Da dieci anni alcuni nodi della 266 vengono continuamente al pettine: centri di servizio, orario flessibile per i lavoratori che fanno volontariato, tasso di burocrazia

di Benedetta Verrini

Dieci anni fa l’Italia si è dotata di una Legge quadro sul volontariato, uno strumento normativo di largo respiro, frutto di molti anni di studio, che finalmente interveniva a dare un riconoscimento giuridico al fenomeno del volontariato. Riconoscendo «il valore sociale e la funzione dell’attività di volontariato come espressione di partecipazione, solidarietà e pluralismo», la 266 ha stabilito le caratteristiche dell’attività di volontariato, che deve intendersi quella «prestata in modo personale, spontaneo e gratuito, tramite l’organizzazione di cui il volontario fa parte, senza fini di lucro anche indiretto ed esclusivamente per fini di solidarietà». In 17 articoli, la legge ha affrontato la disciplina relativa ai singoli volontari (assicurazioni), alle organizzazioni (forma giuridica, registri, benefici fiscali), alle rappresentanze (Osservatorio sul volontariato e Centri di Servizio) e al rapporto con le istituzioni locali. In questi dieci anni il volontariato ha conosciuto una straordinaria evoluzione, che l’ha portato a definire meglio la propria fisionomia all’interno del nuovo assetto di Welfare: la legge 266 è stata affiancata da nuovi strumenti normativi (dal decreto legislativo 460 del 1997 sulle Onlus, fino alla recente legge sull’associazionismo di promozione sociale e alla Legge quadro sull’Assistenza). E di fronte a questa rapida spinta normativa, legata a una forte presa di coscienza delle organizzazioni di volontariato – che stanno assumendo sempre più un ruolo di progettazione o co-progettazione con i soggetti pubblici nella realizzazione di scopi di interesse collettivo – la Legge 266 dimostra di avere il fiato corto e di non essere ancora riuscita a realizzare il suo obiettivo di valorizzazione delle realtà esistenti e di aiuto al loro sviluppo. Vediamo alcuni nodi ancora da affrontare: I Centri di Servizio Si sono sviluppati con enorme ritardo rispetto al dettato normativo (sono andati costituendosi in alcune regioni solo nel corso del 1997) e ancora non sono presenti in Trentino Alto Adige, Valle d’Aosta, Sicilia, Puglia, Friuli Venezia Giulia, Campania, Calabria e Abruzzo. Previsti dall’art.15 della legge 266, “a favore del volontariato e da essi gestiti, con la funzione di sostenerne e qualificarne l’attività”, i Centri di Servizio sinora istituiti sono in parte da carattere regionale (come in Toscana, Marche e Sardegna) e in parte a carattere provinciale o interprovinciale. Il loro funzionamento è assicurato dai finanziamenti messi a disposizione dalle Fondazioni bancarie. Le associazioni hanno spesso dovuto sollecitare l’istituzione di questi organismi e contribuire in maniera determinante alla definizione dei criteri e dei bandi a livello regionale: a volte i risultati non sono stati ottimali, soprattutto là dove il volontariato si è diviso e non è riuscito a trovare accordi unitari. In questi casi ci si è poi trovati di fronte a situazioni pasticciate, che finivano per far prevale l’interesse di singoli pezzi del volontariato o un’influenza eccessiva di regioni ed enti locali. Una recente comunicazione dell’ex ministro Livia Turco ha inoltre dovuto chiarire che i Centri di Servizio possono sostenere progetti d’intervento presentati dalle associazioni di volontariato. La raccomandazione indirettamente ha riconosciuto le denunce avanzate da molti volontari: in quattro anni di vita i centri di servizio sono stati spesso esempio di consorterie e spreco di denaro pubblico e dei fondi che la 266 impone alle fondazioni bancarie di destinare alla solidarietà. La flessibilità nell’orario di lavoro A norma dell’art. 17 della legge 266, “I lavoratori che facciano parte di organizzazioni iscritte nei registri (…) per poter espletare l’attività di volontariato, hanno diritto di usufruire delle forme di flessibilità dell’orario di lavoro o delle turnazioni previste dai contratti o dagli accordi collettivi, compatibilmente con l’organizzazione aziendale”. Questo aspetto, che valorizza grandemente la funzione sociale del volontario e il suo riconoscimento anche all’interno di una struttura lavorativa, è ancora largamente inapplicato. I volontari denunciano una responsabilità in capo agli stessi sindacati, che in questi anni non hanno sostenuto con sufficiente energia questa possibilità nell’ambito della contrattazione collettiva. La burocrazia La legge 266 del 1991 è nata per incentivare e sostenere la collaborazione tra il volontariato e la Pubblica Amministrazione; questa collaborazione così tanto auspicata dal volontariato, perché era in funzione del progetto di cambiamento e di lotta all’esclusione sociale, che impone un lavoro coordinato, non sempre ha dato in questi anni grandi risultati. Le stesse regioni hanno spesso prodotto un rapporto Istituzione/volontariato di livello cartaceo e burocratico, dimenticando le istanze di programmazione comune. È’ dunque necessario purificare la norma di tutti quegli appesantimenti burocratici che hanno caratterizzato l’attuazione in questi anni. Lo stesso Osservatorio Nazionale, come ha recentemente segnalato il Dipartimento degli Affari Sociali, deve trovare un suo ruolo specifico che sia di guida e di sostegno ai molti volontariati e alle istituzioni regionali.


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