Quante volte ci è chiesti quale sia il ruolo sociale dell’arte, in particolare in questo secolo in cui l’arte ha rivendicato una sua libertà dalle committenze dei vari poteri, religiosi o politici? Il 900 è pieno di esperienze che potrebbero singolarmente fornire delle risposte. Ma sono sempre risposte parziali: ad esempio mi ha sempre colpito il fatto che Picasso dopo avere dipinto un quadro epocale come Guernica (1937) abbia passato gli anni della Guerra nel suo rifugio dorato sulla Costa Azzurra, dipingendo opere che solo in pochi casi risentivano della drammaticità del contesto. Evidentemente la risposta sul ruolo sociale dell’arte a cui siamo indotti da un capolavoro come Guernica non è la risposta giusta: quella è un ruolo episodico, che non corrisponde alle dinamiche profonde della creazione artistica, anche laddove l’impegno è più esplicito.
Eppure la questione è decisiva, e non basta sfangarsela dicendo che l’arte è un àmbito per eccellenza dell’espressione individuale e che quindi i nessi con il mondo sono casuali e non necessari. Non è così: l’artista, seppur chiuso nel guscio del suo atelier, è inevitabilmente implicato con il mondo. Per questo se non si vuole essere anacronistici e credere alla favola di nuove arcadie, magari connotate da pensieri politicamente corretti e da linguaggi alla moda, la questione va affrontata.
È quello che Silvano Petrosino fa con questo piccolo libro, intenso e prezioso. Petrosino, filosofo, docente in Cattolica, tra i massimi conoscitori del pensiero di Derrida e Lévinas, porta la riflessione su un fronte inaspettato: quello dell’abitare. L’uomo, spiega, è creatura che “abita” in senso completo il mondo, in quanto se ne prende cura e non si limita a usarlo per vivere. Ma a sua volta l’uomo è anche un essere “abitato”: abitato da un’alterità, da un qualcosa che non è mai l’esito del nostro costruire, «nemmeno di quell’inevitabile costruzione che accompagna ogni immaginazione, perfino quella più inventiva e più creativa». Si può chiamarlo Dio, si può chiamarlo caso, ma è comunque un’alterità irriducibile.
È una presenza che eccede e inquieta l’uomo: e che se viene taciuta può alla fine esplodere in forme drammatiche. L’arte invece svolge questa straordinaria funzione, che ultimamente può esser definita sociale, nel senso più alto del termine: apre all’alterità. Dà un luogo a ciò che eccede. Le pagine più affascinanti di Petrosino sono quelle che riguardano nello specifico l’esperienza di Mark Rothko, grande artista russo di origini ebraiche, protagonista della più grande stagione dell’arte americana (dove era emigrato nel 1913). Rothko dice di fare, attraverso la propria arte, un’opera di “contenimento”. I suoi grandi quadri sono luoghi in cui la spinta dell’essere trova un modo di “abitare” con gli uomini, senza trasformarsi in forza fuori controllo. Per questo c’è da esser grati agli artisti. Non c’è bisogno che si esercitino in messaggi sociali per dare forma alla loro funzione sociale.
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