Mondo
«Ecco come il mio amico Giovanni è diventato cooperante»
Giangi Milesi, presidente dell'ong Cesvi, aveva condiviso parte del proprio percorso nella cooperazione con il 39enne ucciso per errore da un attacco statunitense verso basi di Al Qaeda tra Pakistan e Afghanistan. «Nel 2008 girava l'Asia in autonomia, si è fermato come volontario dopo aver visto i danni di un ciclone. Il suo sacrificio non sia inutile»
«Per oltre tre anni, durante il rapimento, abbiamo osservato la regola del silenzio suggerita dalla diplomazia europea, mentre pensavamo a Giovanni, uomo di pace, capace di sopravvivere alla prigionia. Speranze spezzate nel modo più assurdo». Con le parole del presidente Giangi Milesi tutto lo staff dell'ong Cesvi si raccoglie intorno alla famiglia di Giovanni Lo Porto, che a 39 anni ha trovato la morte a causa di un bombardamento con droni dell'esercito statunitense – nel gennaio scorso, ma si è saputo solo oggi 23 aprile 2015 – verso una base militare di Al Qaeda al confine tra Pakistan e Afghanistan. Base che era anche il luogo di prigionia di Lo Porto e di un collega americano, nelle mani dei sequestratori dal gennaio 2012, che sono stati quindi uccisi per errore, ricevendo le amare scuse del presidente degli Stati Uniti Barack Obama.
Lo Porto aveva conosciuto il Cesvi a Myanmar nel 2008, durante un viaggio personale nel continente asiatico. «Giovanni stava girando quella parte del mondo in autonomia, e si è fermato da noi come volontario dopo aver visto i danni causati da un ciclone», racconta Milesi. Di lì a poco, sarebbe diventato un cooperante vero e proprio. Fino al rapimento, e al tragico epilogo. «Lo ricordiamo circondato dalla popolazione pakistana che lui amava particolarmente e che lo amava altrettanto, mentre organizzava le squadre di lavoro per le distribuzioni o per il ripristino dei canali. Per noi che restiamo, l'impegno per costruire un mondo più giusto continua, adesso più di prima, affinché il sacrificio di Giovanni non sia stato inutile».
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