Mondo
Ecco come arrivano le armi all’Isis
Il successo del colosso jihadista si deve alla capacità di sfruttare quelle che sono state le armi identificative dai primi anni dell’ultima guerra in Iraq, cioè gli ordigni esplosivi improvvisati (IED). Il risultato del report “Tracciare il Rifornimento delle Componenti usate per gli IED dello Stato Islamico”
di Eleonora Vio
Si può dire di tutto sullo Stato Islamico (IS), ma non che non abbia sfruttato al meglio le debolezze altrui. Tralasciando considerazioni di carattere emotivo, dal punto di vista bellico il successo del colosso jihadista che sta terrorizzando il mondo, e consolidando i suoi possedimenti tra Siria e Iraq, si deve alla capacità di sfruttare quelle che sono state le armi identificative dai primi anni dell’ultima guerra in Iraq, cioè gli IED (o ordigni esplosivi improvvisati), e utilizzarli secondo metodologie molto efficaci, e mai viste prima. Se alle bombe nascoste sui cigli delle strade, hanno fatto uso in tanti, l’IS è stato pioniere nell’adottare mezzi militari corazzati carichi di enormi quantitativi di esplosivi. Come si è visto il 17 maggio a Ramadi in Iraq, recentemente liberata ma ancora schiava di migliaia di ordigni nascosti, questi veicoli anonimi e blindati possono facilmente rompere le fila nemiche e, anche senza compiere un massacro, costringerle alla fuga. Poco importa se, come nel caso delle forze irachene in questione, si possa contare su una schiacciante superiorità numerica sui militanti.
Dalla conquista della seconda più grande città irachena, Mosul, nel giugno 2014, gli IED maneggiati dallo Stato Islamico hanno causato la morte di centinaia di militari, combattenti e civili, sia in Iraq che in Siria. A rendere questi ordigni particolarmente temibili sono certamente la nuova strategia bellica impiegata dall’IS ma, soprattutto, come racconta minuziosamente il nuovo report Tracciare il Rifornimento delle Componenti usate per gli IED dello Stato Islamico rilasciato oggi dal Conflict Armament Research (CAR) di Londra, la consapevolezza che i loro elementi fondanti sono beni commerciali e dall’impiego civile, non sottoposti a licenze di esportazione e il cui trasferimento non sottostà agli stessi serrati scrutini delle armi convenzionali. «A stupire è la facilità e velocità con cui l’IS si procura queste parti sia all’interno sia all’esterno del suo Stato, e con cui poi le monta e utilizza nel campo», spiega James Bevan, Direttore del CAR, cioè di un’organizzazione indipendente e sovvenzionata dall’Unione Europea impegnata a investigare il rifornimento di armi in aree di conflitto, «e questo è un chiaro segnale di quanto siano integrati nelle economie locali, e in grado di sostenersi autonomamente».
Le investigazioni si sono svolte nell’arco di 20 mesi in collaborazione con alcune forze irachene e siriane – quali le Unità di Mobilitazione Popolare Irachena, la Polizia Federale Irachena, il Consiglio di Sicurezza della Regione Kurdistan (KRSC), i peshmerga del Governo Regionale Curdo (KRG) in Iraq e il Consiglio Militare delle Unità di Protezione del Popolo Curdo (YPG) in Siria – che hanno dato al CAR libero accesso alle armi da loro sequestrate all’IS durante le battaglie di Rabia, Tikrit, Kirkuk e Mosul, in Iraq, e di Kobane in Siria. «Lungo tutta la prima linea ci sono officine e aree industriali, dove gli IED vengono assemblati dallo Stato Islamico, e noi ci siamo recati proprio lì, studiandone ogni singola parte», spiega Bevan. A oggi il CAR ha preso in esame 700 componenti e, pur avendone studiato la provenienza e i vari passaggi di mano, «ha mappato solo il commercio legale nella regione, implicando in nessun modo che i 20 paesi e le 51 compagnie menzionate nel report abbiano trasferito questi beni civili direttamente alle forze dell’IS». Se alcune parti, come pasta di alluminio e urea, non sono sottoposte ad alcun controllo e licenza nell’esportazione, altre – come detonatori o corde detonanti – per essere trasferite altrove
devono essere accompagnate dalle opportune carte ma, essendo comunemente usate per attività commerciali nel settore minerario o industriale, passano ai controlli spesso inosservate. Come per ogni investigazione in cui manchi un’evidenza schiacciante, comprovata da documenti firmati e siglati, il CAR ha proceduto per gradi, identificando prima i produttori delle varie componenti utilizzate per fabbricare e comandare gli esplosivi artigianali, quindi le compagnie di distribuzione e, come ultimo ma fondamentale anello della catena, le entità commerciali più piccole, «che rilasciano direttamente a individui o gruppi affiliati allo Stato Islamico le parti necessarie per gli ordigni, rappresentando perciò l’elemento più critico tra tutti», come afferma il report stesso. I paesi coinvolti sono tanti, e includono perfino Brasile, Giappone, India e gli Stati Uniti d’America ma, «con 13 compagnie coinvolte nel processo di produzione e distribuzione, la Turchia è il centro nevralgico per le componenti utilizzate nell’assemblaggio degli IED». La prossimità della Turchia allo Stato Islamico, il suolo turco dedicato estensivamente al settore agricolo e minerario – che sfrutta molte componenti chimiche ed esplosive analizzate dal CAR e in parte esportate, e in misura minore fabbricate, in Turchia – e, come dice Bevan, «un confine che è virtualmente aperto da sempre», spiegano molte cose. A far nascere dei dubbi, che per il momento rimangono tali, sono stati i ripetuti tentativi del CAR di ottenere spiegazioni dal governo turco e da alcune compagnie locali, senza produrre risultati, se non una serie di risposte evasive. Il 25 febbraio del 2015 le forze curde siriane dell’YPG hanno sequestrato parti di corda detonante alle forze dell’IS, prodotte dalla Solar Industries indiana ed esportate, tra le altre, alle compagnie Ilci e Nitromak Dyno Nobel di Ankara.
A posteriori, un rappresentante di Ilci ha spiegato al CAR come la compagnia avesse venduto il prodotto solo ad acquirenti basati in Turchia e nei Balcani, perché il governo vietava l’esportazione di corde denotanti in Iraq e Siria, e le medesime parole sono state ripetute da funzionari della Nitromak.
A quel punto, «abbiamo fatto una serie di telefonate e inviato diverse mail alle autorità per chiedere che guardassero nei loro tabulati e divulgassero informazioni più dettagliate sulle compagnie indagate», spiega Bevan, «ma non abbiamo avuto risposta. Quando poi l’Unione Europea ha interceduto per noi, il governo ha finalmente risposto… Ma dicendo che nemmeno l’UE era legittimata a ottenere quel tipo d’informazioni». Oggi, a causa dei tasselli ancora mancanti, il CAR non è in grado di documentare tutta la filiera che da Ankara porta a Kobane ma, «tra le piccole realtà commerciali cui le due aziende turche hanno venduto le corde, c’è sicuramente quella che ha fatto affari con l’IS», aggiunge Bevan. «Per il momento, però, è prematuro svelare di più». In generale, quando l’IS non s’impossessa di queste preziose componenti in battaglia, o durante la presa di complessi governativi – come è successo per un’altra corda detonante che era stata fornita legalmente al regime siriano -, «è lecito pensare che abbiano intermediari, come finti contadini o uomini d’affari, che comprano e consegnano i prodotti direttamente nelle loro mani».
Assieme agli elementi usati nel settore agricolo e industriale, tra le parti fondamentali nella realizzazione degli IED il CAR ha preso in esame anche i cellulari e i cavi della telecomunicazione, perché è “il loro rifornimento a servire come segno inequivocabile per i network di acquisizione utilizzati dalle forze dell’IS,” spiega il report del CAR. Il fatto che siano stati rinvenuti cellulari identici nelle mani dei militanti – di modello Nokia 105 RM-908 – significa che, “l’IS manda delle persone appositamente a comprare stock di telefoni, economici e facilmente scomponibili, che possono essere programmati con gli stessi parametri, per evitare che i combattenti si mettano in difficoltà a vicenda,” dice Bevan. “Abbiamo addirittura trovato etichette in arabo con istruzioni sulla suoneria da usare e la compagnia telefonica cui appoggiarsi…” Ad ogni modo, “La presenza stessa d’intermediari, che, attivamente, cercano componenti per conto dell’IS, è alla base di tutta la catena di produzione e distribuzione degli ordigni.”
Tracciare il Rifornimento delle Componenti usate per gli IED dello Stato Islamico ha lo scopo principale di evidenziare la velocità con cui lo Stato Islamico è riuscito ad acquistare le componenti necessarie per fabbricare gli IED, in alcuni casi con solo un mese di distanza da quando questi elementi sono entrati legalmente nelle mani di entità commerciali basate nella regione. Ciò può essere dovuto, «alla mancanza di controllo da parte dei governi e delle aziende o dalla poca consapevolezza che elementi comunemente commerciabili siano utilizzati da terroristi e insorti», dice Bevan, «ma dimostra anche quanto ben organizzato e auto-sufficiente sia diventato lo Stato Islamico».
Dopo quasi due anni d’investigazioni no-stop il lavoro del Conflict Armament Research non è finito. L’obiettivo ora è di mettere assieme una documentazione il più dettagliata e rappresentativa possibile del processo di acquisizione sul terreno, «perché solo così si possono identificare le somiglianze e stabilire un modello generale». Parallelamente «vogliamo cominciare a guardare ai flussi di soldi attorno alla compra-vendita di merci comuni, come il cibo, perché è lì, e in altri prodotti commerciali e d’interesse civile – si veda per gli IED – e non in risorse esauribili come il petrolio, che stanno le vere risposte».
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