Famiglia

È tutto un gran casino

di Paola Strocchio

Accettare è un verbo che proprio non mi garba. Non mi garba perché è un po’ come se io dicessi: ok, va bene, quello che mi stai dicendo è inevitabile, per cui lo accetto. Con un figlio, ancora di più se è adolescente, credo si debba andare oltre l’accettazione. Mi piace la parola accoglienza. Mi piace condivisione. Mi piacciono sostegno e appoggio. E poi abbracci. Come quelli caldi che mi dava la mia nonna quando ero una piccoletta e che mi fanno stare bene anche adesso che ho qualche decennio di più.

Tutta questa premessa noiosa e verosimilmente poco interessante, è perché in questi giorni ho capito – sì, sono un po’ tontolina, direi che a questo punto è davvero evidente – che il mestiere di mamma (e di papà, ovvio) è davvero un gran casino. Un momento hai di fronte a te un ragazzo che ti chiede di lasciarlo in pace e di andare fuori dai ciap (credo che nella policy di Vita non siano permesse le parolacce, per cui ho provato a farmi capire a modo mio) e un momento dopo quello stesso ragazzo ti chiede di entrare con lui nella saletta dell’ospedale in cui lo vaccineranno contro questo maledetto Covid per tenergli la mano e perché ha il terrore degli aghi.

E allora non capisco bene come mi devo regolare, e provo a prendere di nuovo le misure. Solo che nel momento in cui le misure credo di averle di nuovo prese, con il mio personalissimo metro da sarta, eccole lì che cambiano di nuovo, e devo ricominciare da capo.

Non è una questione di amore, che sia chiaro. Perché quello nessuno lo mette in discussione. Quello è tanto, tantissimo, straripante e tumultuoso, e soprattutto capace di andare oltre qualunque ostacolo che la vita ti presenta davanti, che ti piaccia o meno.

La paura, quando davanti a te hai un figlio adolescente, è di non essere “abbastanza”. Abbastanza brava ad ascoltarlo, abbastanza capace di capirlo, abbastanza confidente senza trasformarti in un’amica ma rimanendo LA mamma. Anche abbastanza dura, quando occorre.

Ora, ecco, io non sono nulla di tutto questo.

Non lo scrivo per fare un esercizio di falsa modestia o per raccogliere pat pat da colleghi genitori che a volte si guardano davanti allo specchio, proprio come me, e si chiedono se potevano fare di più. Lo scrivo perché ci sono giorni in cui la stanchezza prende il sopravvento e per ricordarci, e per ricordarlo anche ai nostri figli, che non siamo supereroi, anche se siamo passati nello scanner di psicologi e servizi sociali per stringere in mano quel benedetto decreto di idoneità all’adozione. Siamo terribilmente umani anche noi e a volte abbiamo bisogno di fare un respiro profondo e dire: ok, fermiamo le bocce e ripartiamo. Senza lasciare nessuno indietro. Soprattutto i nostri figli.

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